La decima puntata. A sud di Roma, giugno 2019. Il giuoco delle perle di vetro (una storia di tele e teli, bronzo, celluloide e cavalli)

Sabato primo pomeriggio, caldo.

Il proiettore a tiro ultracorto full HD, lo schermo avvolgibile con la sua “americana”, le immancabili  Bose 402, il rack audio completo di processore, tanti cavi (non sono mai troppi), il borsone degli stativi.

Il nostro cinema da viaggio viene caricato sulla vecchia Fiat aziendale.

“Le orecchie! Abbiamo preso le orecchie?” Riapro la flight case, ci sono. Andiamo.

Imbocchiamo l’Appia, direzione Castelli. Guido rilassato su questa antica strada consolare, mi vengono in mente immagini del mio passato remoto e recente, quando quasi smisi di fare il proiezionista per progettare cinema e curarne tutti gli aspetti.

Penso agli anni del Nuovo Sacher, a quelli successivi e alla società che fondai per vendere proiettori tedeschi, a come da lì non mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana, ma su quella folle nave che negli anni a venire sarebbe diventato il maggior circuito cinematografico di qualità.

Mi vengono in mente tutte le sale ristrutturate, le serate speciali, le anteprime con i registi di mezzo mondo (Martin Scorsese, Spike Lee, Sophia Coppola, Luc Besson, oltre ai “soliti”, amatissimi, italiani).

Poi, quattro anni fa: “Siamo in crisi, non possiamo più permetterci una figura professionale come la Sua, accordiamoci per una separazione”.

Presi atto e me ne andai in punta di piedi.

Mi ero occupato di cinema per quattro quinti della mia vita e avrei voluto continuare a farlo. Misi su un piccolo folle incrociatore con l’intento di traghettare l’esperienza cinematografica in ogni luogo possibile.

L’avvento del digitale e di tanta nuova tecnologia mi aveva fatto prendere coscienza da tempo che, mettendo a frutto le mie conoscenze tecniche, avrei potuto realizzare sale private di qualità enormemente superiore a quelle pubbliche.

La prima che feci fu… la mia!

Per uno strano scherzo del destino, o piuttosto per una sorte benevola, la sede che potevo permettermi era un vecchio studio di doppiaggio in disarmo da oltre un decennio. Una delle sale aveva un trattamento acustico perfetto, non la snaturai e creai lì il mio cinema personale.

Svoltiamo a destra, superiamo il regno della porchetta, prendiamo una stradina secondaria.

Ecco, siamo arrivati alle Officine Alviti, un insospettabile capannone industriale.

Ci viene aperto, rigorosamente a mano, il grande cancello di ferro.

Parcheggiamo nel cortile.

Sacchi di cemento, vecchi sgabelli arrugginiti, una carriola buttata da un lato.

Entriamo nel capannone. Vediamo scaffali altissimi, grandi sculture di bronzo, calchi, quadri, tessere di mosaico, ma, quello che c’è veramente, è invisibile agli occhi.

Serve un occhio speciale per scorgerlo.

I padroni di casa ci conducono in un’ala separata, uno spazio normalmente destinato alla pittura che oggi ospiterà la proiezione di un film entrato nella storia del cinema italiano.

Scarichiamo le attrezzature, montiamo lo schermo di tre metri davanti a una parete di mille colori sporcandoci le mani e le ginocchia di tempera rossa.

Presi dall’entusiasmo, l’allestimento e la messa a punto si concludono in meno di un’ora.

Mentre attendiamo Alessandra, Patrizio ci conduce in una sorta di visita guidata presso lo spazio grande.

Ci parla dell’anima di questa fabbrica d’arte, di come sia cresciuta grazie all’impegno suo e di suo fratello Cristiano.

Ci sono centinaia di tele e sculture di varie dimensioni, da pochi centimetri a qualche metro, le figure emergono da un apparente caos recando qualcosa che non è più materia, ma piuttosto spirito imprigionato dentro di essa.

E’ imprigionato come lo sono Mandrake e Er Pomata in un grosso file riversato in un blu ray appoggiato vicino al proiettore.

Lasciarmi andare nella ricerca dell’essenza di questo spirito mi costringerebbe ad entrare in stati d’animo profondi e non compatibili con questo pomeriggio d’estate. Mi accontento, per ora, di lampi fugaci di questa percezione.

Ritornando verso l’area dove si svolgerà la proiezione, incontriamo Cristiano.

E’ lui l’autore delle sculture.

E’ affabile ma non ama essere osservato come se stesse su un piedistallo.

Scambiamo qualche parola, mi accenna al senso del suo lavoro e mi parla di una statua particolare che avevo notato pochi minuti prima la cui essenza, ora, mi appare più nitida.

Ancora lampi.

Arrivano i primi ospiti, qualcuno porta da bere, sul tavolo allestito tra lo schermo e i divani compaiono cibi di ogni sorta. Ma Alessandra, quando arriva?

Eccola, entra portando trionfalmente due sporte ricolme di mezze maniche trafilate al bronzo e tutto l’occorrente per un’ottimo sugo Portofino. La seguiamo per la scala che porta in una inaspettata cucina, dove Cristiano è già alle prese con la zuppa di pesce.

Ho conosciuto Alessandra qualche mese fa, mi aveva commissionato un allestimento simile a quello di oggi per una proiezione privata in una importante villa sul Lungotevere.

E’ grazie a lei che sono qui ora.

Questa graziosa signora dall’aspetto delicato conserva oggi tutta l’energia e l’entusiasmo che l’hanno portata a produrre molti film che hanno accompagnato la nostra storia. In effetti la cucina mi ricorda un set cinematografico dove ognuno fa il suo lavoro in armonia e dove c’è chi coordina una squadra. In questo caso la squadra è quella che si occuperà di coadiuvare Alessandra nella realizzazione della pastasciutta. Il risultato renderà merito al suo talento nel prendersi cura di ogni particolare.

Si fa onore alle vivande, l’ambiente è suggestivo, divani, poltrone, sgabelli e tavoli sembrano messi alla rinfusa ma hanno un loro ordine che mette decisamente a proprio agio tutti gli ospiti-spettatori.

Tra un calice di buon vino, un boccone di Zizzona di Battipaglia e un sauté di molluschi passano dei piacevoli minuti e ci avviciniamo al momento della proiezione, con grande gioia delle piccole Alviti che da tempo reclamano l’inizio del film; ripenso con affetto e un po’ di nostalgia al pubblico impaziente ed entusiasta della sala parrocchiale dove, quindicenne, apprendevo il mestiere di proiezionista.

Era l’anno di produzione di “Febbre da Cavallo”.

Il pubblico, di varie età, chiede ad Alessandra di raccontare qualche aneddoto sul film. Dato il clima conviviale della serata, lei si concede volentieri, rivelandoci, tra le mille altre curiosità, come nacque il titolo. Non lo dirò per non privare chi ne avrà l’occasione, del piacere di sentirlo raccontare da lei.

Le luci si spengono, Mandrake e Er Pomata si materializzano dal file digitale allo schermo.

Da una sequenza quasi infinita di zero e di uno prendono vita le immagini, i suoni e le emozioni che, a loro volta, sprigionano gioie, speranze e dolori di quanti hanno speso parte del loro denaro e della loro vita sugli spalti di un ippodromo, o in un qualunque altrove, attendendo una vittoria che non arriverà mai.

Mezzanotte è passata, siamo di nuovo sulla via Appia, direzione Roma. Inaspettatamente data l’ora ci troviamo fermi nel traffico; molto lentamente giungiamo all’altezza dell’ippodromo e capiamo l’origine dell’ingorgo. Non si tratta di una corsa di cavalli, ma è da poco finito il concerto di un rapper che si chiama Liberato; una folla di ragazzi cammina sui lati della strada in cerca di un pullman o di un passaggio. Dal finestrino aperto guardiamo quei ventenni ancora inebriati dalla loro musica.

L’ultima perla di vetro è stata infilata.

Paolo Di Virgilio

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