La nona puntata. Gente da cinema, gente al cinema

La nona puntata. Gente da cinema, gente al cinema

In questo diario ogni riferimento a fatti realmente accaduti NON è casuale e i personaggi NON sono frutto della fantasia dell’autore. Se qualcuno si riconoscerà in questi racconti non me ne voglia, io ho amato molto i miei spettatori, è soprattutto per loro che il bravo operatore cerca di dare sempre il meglio

Il proiezionista si sente in una posizione privilegiata, anche se qualcuno direbbe che il suo posto è tra il martello e l’incudine, dove il martello è riferibile a chi i film li realizza e l’incudine a chi li guarda.

Ho sovente effettuato la messa a punto della proiezione per la piena soddisfazione degli autori, soprattutto in occasione di anteprime o eventi particolari. Tra il pubblico, però, c’è sia  chi sa apprezzare tale rigore e chi, al contrario, vorrebbe una proiezione a misura dei propri sensi.

Cinema Capranica, estate 1990. Fantafestival

Un festival è sempre un festival, ma il Fantafestival è una cosa a parte.

Il pubblico è decisamente particolare, va dal cinefilo rigoroso allo spettatore trash che passa l’intera giornata in sala allo scopo di partecipare, in senso letterale, all’Evento spesso commentando ad alta voce,  in coro o singolarmente, le scene più esaltanti dello spettacolo, una claque variegata  tipica di certi cinema di borgata degli anni ’60 del secolo scorso.

Oggi c’è un evento speciale,  a mezzanotte verrà proiettato “Gipsy Angel” di Al Festa,  un produttore di apprezzati vinili, nonché storico dj delle migliori discoteche.

La galleria del cinema, aperta per l’occasione, è stata riservata alla troupe e ai suoi ospiti.

La cabina di proiezione si trova proprio sopra la galleria, quindi appena iniziato lo spettacolo mi siedo  tra questo spettabile pubblico.

Non ho mai saputo se, tenendo il volume molto alto per assecondare il volere dell’autore, commisi un errore e inconsapevolmente fui responsabile di quello che accadde dopo.

Il rumoroso e scherzoso pubblico è costretto a esternare le sue pittoresche critiche a voce più alta, per sovrastare il muro di suono che si erge tra l’impianto e le sue orecchie.

Alcuni degli attori, non conoscendo il clima particolare del Fantafestival, si scambiano sguardi  preoccupati, Al li rincuora dicendo loro che è tutto normale, che qui funziona così.  Verso il finale la folla, autofomentatasi, alza il livello della partecipazione. A quel punto la pazienza di qualcuno degli ospiti in galleria viene meno.

“Pecorai!”,

La platea applaude.

“Invece che al cinema andate a pascolare il gregge!”,

Bordata di fischi mista a risate.

“Coatti incivili!”.

“Ha parlato er principe!”

Il film finisce. Il regista la prende a ridere, forse pensando alla frase di Oscar Wilde “nel bene o nel male, purché se ne parli”.

Il pubblico nel frattempo è arrivato già nell’atrio sovrastato dalla scala settecentesca che ora la troupe si appresta a scendere.

Uno spettatore si fa largo fra la folla (seppi in seguito  che si trattava di un giovane aspirante regista). Come un ossesso punta il dito contro Festa gridando:

“Bel capolavoro che hai fatto!”

Fischi misti a applausi.

“Ma che vuoi, sei invidioso? “

“Scommetto che hai preso un sacco di soldi per fare questa schifezza”

Ancora fischi e ancora applausi.

Festa, stando al gioco, scende la scala come una imponente Wanda Osiris, però in smoking, tuonando con voce maestosa: “Sì, ho preso un sacco di soldi, e voi attaccateve a… questo!”

Il gesto dell’ombrello che accompagna la fine della frase ha l’effetto del fischio d’inizio di un derby calcistico. La troupe accelera la sua discesa dalla scalinata, il pubblico ne inizia rapidamente la salita, si incontrano a metà strada e anziché una partita di calcio ha inizio la mischia di un incontro di rugby.

Cinema Nuovo Sacher, 1992

Domenica pomeriggio.

Il film è iniziato da poco, il pubblico è già in sala, ma l’atrio è di nuovo affollato: l’accogliente bar e la piccola libreria sono un punto di ritrovo dove gli spettatori si intrattengono volentieri prima dell’inizio dello spettacolo.

Un ometto magro, sulla cinquantina, attira l’attenzione a causa delle sue rimostranze nei confronti della cassiera:

“Lei sta scherzando, vero? “

“No, signore. Qui non è consentito entrare a spettacolo iniziato per non disturbare chi sta seguendo il film.”

“Ma io non devo vedere il film, sto cercando mia moglie che so per certo essere qui!”

“A maggior ragione. La sala è piena e lei per cercare sua moglie recherebbe ancora più disturbo”.

L’uomo alza la voce, “Forse non è chiaro, lei non può impedirmi di cercare mia moglie”.

A questo punto il gestore della sala, che casualmente si trova nei pressi del bar, si avvicina al capannello che nel frattempo si è formato intorno ai due contendenti e cerca di raffreddare gli animi.

“La ragazza le ha detto che non può entrare perché qui abbiamo delle regole a tutela dello spettatore che ha pagato il biglietto e sa che qui non sarà disturbato”.

“Guardi che so chi è lei, non si faccia forte della sua celebrità. Io DEVO entrare!”

Il fragore della discussione sta provocando di per sé il temuto disturbo, il regista-esercente si rende conto che ormai numerosi curiosi volgono la loro attenzione allo spettacolo fuori programma e si aspettano da lui una reazione degna della sua fama di persona rigorosa e poco incline a consentire prepotenze. Squadra il temerario dall’alto verso il basso e, dopo pochi ma interminabili secondi, sentenzia con voce imperiosa:

“Allora vada, vada! Entri e faccia vedere a trecento persone quanto è maleducato!”

Il piccolo energumeno entra in sala.

Nell’atrio cala il silenzio ma non l’attenzione.

Chi si aspettava di assistere a un litigio tra coniugi rimane deluso: l’uomo esce da solo, il tono arrogante è ormai scomparso.

Mi guarda e mi chiede, quasi balbettando: “Questo film è proiettato anche in un altro cinema?”

“Sì, al cinema Mignon”.

“E gli spettacoli hanno gli stessi orari?”

“Sì, anche lì è cominciato da poco”.

Si precipita verso l’uscita e nell’atrio torna finalmente la pace.

Dopo un’ora l’ometto si ripresenta, visibilmente trafelato, in tempo per la fine dello spettacolo.

Scruta il pubblico che esce.

Gli spettatori che stanno per entrare lo riconoscono e scrutano lui, rimasto ormai da solo nell’area di deflusso.

Sorrisini, frasi sussurrate, occhiate d’intesa accompagnate da un gesto con la mano che spesso è usato come scongiuro, ma che, in questo caso, ha tutt’altro significato.

Il disonorato, ormai consapevole della sua condizione, mestamente e lentamente torna a casa.

Paolo Di Virgilio.

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L’ottava puntata. Gente da cinema

L’ottava puntata. Gente da cinema

La Gente da Cinema include una vasta galleria di personaggi che varia a seconda delle epoche, anche se ci sono delle costanti: l’esercente vecchia maniera, il personale di sala, il pubblico, i perdigiorno che amano sostare ore nell’atrio. Ognuno ha il suo ruolo nel rituale che si svolge tra le mura di questi templi moderni.

Voglio iniziare con i gelatai.

Il gelataio (a Roma “bibbitaro”) è una specie quasi estinta, soppiantata dagli asettici bar interni.

Ricordo dei veri guerrieri che fendevano la folla in sala durante l’intervallo; erano sempre attenti a evitare prelievi abusivi della loro preziosa mercanzia, ma soprattutto. sapevano sempre, con buona approssimazione, quanto pubblico ci sarebbe stato ad ogni spettacolo, approvvigionandosi così per tempo della giusta quantità di merce.

Non so come mai avessero questa dote, ma immagino che ciò fosse dovuto al fatto che trascorrevano buona parte del loro tempo in sala. Durante la proiezione, infatti, trovavano sempre una poltrona libera dove riposarsi o vedere e rivedere il film. Percepivano gli umori del pubblico, comprendevano il gradimento o il disappunto.

Con il senno del poi direi che un buon programmista avrebbe dovuto ascoltare il loro parere; gli incassi ne avrebbero certamente giovato.

A loro modo erano dei piccoli imprenditori, in quanto il loro compenso era in base al venduto, di solito il venticinque per cento dell’incasso. Spesso erano il tormento di cassiere e proiezionisti, perché presentavano presso costoro le loro rimostranze se ritenevano un film “fiacco”.

Con i proiezionisti c’era un rapporto speciale, infatti da questi potevano dipendere in buona misura le loro sorti economiche. Avevano ovviamente simpatia per gli operatori che erano prodighi nel lasciare loro più intervallo possibile per il loro commercio.

Ricordo in particolare due gelatai isolani.

Uno prestava la sua opera presso il cinema Augustus; era un ometto molto anziano, con baffi curati e una camicetta sempre impeccabile che faceva capolino dalla casacca bordeaux della divisa. Aveva un marcato accento siciliano e sembrava uscito da un romanzo di Verga. Il suo ritornello abituale era “Io, operatore ero”; immaginavamo che ciò fosse avvenuto in epoca assai remota, e non conoscendo il suo vero nome, lo chiamavamo Lumière.

Una sera il film stava riscuotendo particolare gradimento di pubblico.

Faccio partire il film, mi giro e trovo Lumière in cabina con le mani dietro la schiena e un sorrisetto a suo modo ammaliante.

“Buona sera,, signor operatore, lo sapete che una volta facevo il vostro mestiere?”

“Sì, l’ho sentito dire,”

“E  ditemi un po’, adesso che lavoro faccio?”

“Beh… adesso vende dei beni di ristoro in sala”

“E secondo voi cosa vendo particolarmente?”

“Non saprei, forse pop corn?”

“Anche. Ma non solo…”

“Bibite fresche?”

“Di quelle ne vendo poche, ed è meglio così,  perché pesano”

“Gelati!”

“Bravo! “ Si illumina e mi porge ciò che occultava tenendo le mani dietro la schiena.

“Ecco un bel gelatino per il signor operatore… Prendetelo, è buono”.

“Grazie, ma non si deve disturbare”

“Nessun disturbo, mi fa piacere. Me lo dareste qualche minutino in più d’intervallo?”

Glielo avrei dato comunque.

L’altro isolano è ovviamente Efisio, che avete già conosciuto nella  terza puntata.

Con lui avevo un buon rapporto, al cinema Farnese gli orari erano abbastanza comodi pertanto ero libero di concedergli il tempo necessario per i suoi affari specialmente durante l’ultimo spettacolo che di solito era il più affollato.

Al Farnese non ero l’unico proiezionista, dividevo i turni con Marcello, un bancario che arrotondava il suo stipendio lavorando tre giorni a settimana in cabina di proiezione.

Efisio e Marcello non avevano un buon rapporto.

Marcello era un tipo ansioso e votato all’efficienza, si trovava a suo agio con i tempi stretti e soprattutto durante l’ultimo spettacolo era particolarmente frettoloso anche allo scopo di recuperare minuti di sonno preziosi.

Un giorno mi trovavo nell’atrio e zia Nicoletta, un po’ preoccupata, mi disse “Ieri Efisio e Marcello hanno litigato, sono quasi andati alle mani. Magari parlaci anche tu e vedi se si può mettere pace”.

“Perché, cosa è successo?”

“Durante l’ultimo spettacolo…. Ah, ecco Efisio.”

Efisio mi guarda e decide di continuare il racconto.  “Ci ho litigato perché quello è uno str…. “

Immaginavo già il motivo del contendere.

“Lui non è come te, che sei bravo, ieri sera non mi ha dato neanche due minuti di luce”

Probabilmente è andata così, però sapevo che Efisio talvolta era lento nell’entrare in sala e Marcello, anche per questa ragione, si rifiutava di fargli superare i due o tre minuti di vendita effettiva.

”Insomma, ieri sera ho aspettato che scendesse e gli ho detto come la pensavo”

Squadro Efisio e gli chiedo “Cosa gli hai detto esattamente?”

“Gli ho detto: avevi paura che tua moglie ti mettesse un paio di corna in più se mi davi un intervallo più lungo? E lui l’ha presa male”.

Mia zia mi disse che da quel momento in poi dovettero assicurarsi che la loro distanza fisica fosse di almeno un paio di metri

Paolo Di Virgilio.

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La settima puntata. 17 gennaio 1991, Roma, Cinema Capranichetta. Uroboro umano

La settima puntata. 17 gennaio 1991, Roma, Cinema Capranichetta. Uroboro umano

Primo pomeriggio, apro la cabina del cinema Capranichetta; negli ultimi due anni molte cose sono cambiate nel lavoro del proiezionista. Si può fare a meno di caricare il proiettore a ogni tempo e di riavvolgere al pellicola. Le cabine, infatti, cominciano a essere automatizzate. Ci sono due sistemi per farlo: uno è quello di avere due proiettori gemelli; su ognuno viene caricato uno dei due tempi. Mentre uno proietta l’altro va a marcia indietro e riavvolge.  Un sistema di sensori e centraline di automazione governerà tutte le operazioni (start e stop, accensione luci di sala, durata dell’intervallo, eccetera).

L’altro metodo, da un punto di vista “filosofico”, è molto più interessante: su un grosso piatto disposto orizzontalmente in prossimità del proiettore viene caricato l’intero film. Dal centro viene pescata la pellicola che va al proiettore, sul bordo esterno arriva la pellicola che viene dal proiettore. Vi sono ovviamente degli accorgimenti per far sì che dal centro venga svolta la stessa quantità di pellicola che nello stesso tempo verrà ricevuta dall’esterno. Si tratta in pratica di un loop senza fine composto da molte spire. Con questo sistema la proiezione potrebbe durare all’infinito.

Mi viene in mente l’altorilievo di una figura piuttosto diffusa in varie epoche e culture, che si trova nella basilica dei Santi Giovanni in Laterano. Si tratta di un serpente che alimenta se stesso mangiando la sua coda in una circonferenza infinita e perfetta. Per secoli, forse per millenni, ha ricordato agli uomini il ciclo della natura nel suo eterno ritorno.

E’ un periodo strano, questo, di tensione diffusa. Da mesi ci si domanda: “Quanto sarà distante l’Iraq dall’Italia?”

Sulla piazza fuori dal cinema si aggirano in molti per cercare di capire cosa accadrà, per essere in qualche modo presenti, per dire la propria. Dall’edificio più grande di quella piazza si prendono le decisioni importanti per il Paese, è Piazza Montecitorio.

Il cinema Capranichetta confina con l‘Albergo Nazionale e ha i sotterranei in comune. Più di una volta la domenica pomeriggio ho interrotto il mio servizio in sala per recarmi lì sotto. La prima volta mi sentii quasi prigioniero in quella piccola cabina di proiezione di una piccola sala privata alla quale non mi era permesso accedere; il mio compito consisteva infatti nel preparare il film, proiettarlo rimanendo in cabina ed essere ricondotto di sopra scortato  da due uomini in abito scuro addestrati al livello di protezione più alto; parlano poco, e sempre a bassa voce, il loro compito è proteggere la vita altrui cercando di invaderla il meno possibile.

Il mio datore di lavoro dell’epoca apparteneva a una famiglia amica da due generazioni di quell’uomo importante, che conosceva i segreti del Paese e che la domenica trovava il suo relax in quel piccolo cinema segreto. In questo periodo è il Presidente del Consiglio del suo sesto governo.

Sono nell’atrio; le mansioni, grazie all’automazione, sono in parte cambiate. Si da una mano al personale di sala per agevolare l’afflusso e il deflusso del pubblico.

Sta per finire un film francese che parla di una vecchia misantropa e del suo rapporto con la nuova badante, più misantropa di lei. E’ una commedia divertente e ottimista, quello di cui molti hanno bisogno in questo periodo. Il film è appena finito, il proiettore ha comandato l’accensione delle luci ed io sono in sala davanti alle tende dell’unica entrata, a indicare al pubblico che l’uscita è alla mia destra.

Appena avviata la procedura lascio la mia postazione e mi dirigo verso il centro della platea per controllare se ciò che ho notato su una poltrona è una borsa dimenticata. Mi giro e quello che vedo è sorprendente, curioso, ma fa pensare: il pubblico che era uscito di lato, dopo essere passato per un disimpegno tra la sala e l’atrio, sta girando attorno a una colonna  e rientra in sala dall’accesso che io ho lasciato sguarnito, poi esce di nuovo, da dove era già passato prima e ….rientra!  Potrebbe durare in eterno.

Il direttore, Signor Zignani, interviene incredulo per spezzare questa processione infinita; ne porta uno verso l’uscita giusta e tutti gli altri lo seguono.

Ultimo spettacolo.

Come al solito è un momento tranquillo.

Rifletto su quanto è accaduto, il cinema, come ho più volte pensato, offre un senso di protezione, è uno spazio separato dal normale spazio-tempo reale.

Dalla porta a vetri osservo la piazza, qualcuno grida “hanno attaccato”!

Altra gente arriva nella piazza; chi protesta, chi urla slogan, lo spettatore abituale del cinema segreto si trova nel palazzo più grande, a pochi metri dal suo luogo di relax, ma in questo momento sicuramente in tutt’altra disposizione di spirito.

Il film è finito, il pubblico esce dalla sala, si mescola con incredulità a quella folla inquieta.

Dalla bacheca del cinema Zia Angelina osserva con il suo sguardo torvo e nello stesso tempo benevolo: “Bentornati nel mondo reale”.

Paolo Di Virgilio.

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La sesta puntata. 15 gennaio 1990, Roma, Cinema Balduina. Loving memories

La sesta puntata. 15 gennaio 1990, Roma, Cinema Balduina. Loving memories

Lunedì mattina. Sono in cabina, non c’è una proiezione per le scuole, sto aspettando un appassionato di cinema. E’ un collezionista di apparecchiature cinematografiche, sarà qui tra poco per prendere possesso dei due vecchi CGC, proiettori decisamente poco comuni.

Ieri hanno effettuato la loro ultima proiezione “Ho vinto la Lotteria di Capodanno”, un film dove Paolo Villaggio sembra Fantozzi ma non è più Fantozzi; l’edificio di piazza della Balduina 52 sembra un cinema ma da oggi non è più un cinema: la Sip, unico gestore telefonico, ha deciso di farne una centralina di zona e lo ha acquistato.

Centinaia di poltrone sono state smontate, i camion sulla piazza stanno caricando per portare via tutto, la sala deve essere consegnata libera. Mi viene in mente un film in cui Massimo Troisi faceva il proiezionista e Marcello Mastroianni l’esercente. Stavolta, però non c’è nessun pubblico che viene a sedersi per evitare che lo spettacolo sia l’ultimo, né una neve che cade su di loro. E’ avvenuto anche qui, ma solo sullo schermo. Non è stata vinta nessuna lotteria, Fantozzi è andato in pensione, come ci andrà, e non per sua scelta,  Eleonora la cassiera.

Io rimarrò nel circuito, già conosco tutte le sale in quanto durante la lunga chiusura estiva  venivo spostato nei cinema del centro. Mi piaceva quel periodo dell’anno, mi piaceva lavorare nelle due sale attigue a Piazza Montecitorio oppure in quell’altro locale a due passi dal Farnese.

Per certi versi dovrei essere contento, da un punto di vista professionale sarebbe un salto di qualità. Ho cercato di convincermene durante l’ultima settimana nella quale ho ripensato ai momenti belli trascorsi qui.

Sono entrato celibe, ora sono sposato e aspetto un figlio.  Le gioie e i problemi condivisi con Enzo ed Eleonora, le lezioni del Professore, il pubblico di quartiere che ormai conosco come se ci vivessi da sempre.

Due funzionari della compagnia telefonica sono qui per verificare che tutto venga fatto secondo gli accordi; probabilmente ero destinato, come molti miei ex-compagni di scuola, diventati periti specializzati in telecomunicazioni, ad essere un loro collega, o almeno questo era il sogno più o meno di tutti.

E invece no, il mio, di sogno, era quello di caricare un proiettore e accendere una lampada ad ogni spettacolo.

L’ultimo camion se n’è andato, la sala sembra grandissima, ora. La attraverso da solo. Come sempre in questi casi cerco di far finta di niente pensando alla nuova vita che mi attende al centro di Roma.

Lo schermo giace spiegazzato e tagliato sul boccascena, mi avvicino con rispetto e riverenza come si farebbe per un vecchio eroe. Dalle sue pieghe vedo venire fuori e prendere corpo un coniglio innamorato di una pupa vestita di rosso, un maestro di danza e la sua allieva che si perdono in un ballo proibito, uno psicanalista fiorentino che non vuole rinunciare alla sua amata, un ragazzino al funerale della sua mamma che si è svolto in un cinema qui vicino, tre streghe innamorate di un diavolo, un goffo ragioniere con basco e mezze maniche, un venditore di auto usate che viaggia con suo fratello Raymond, un paraplegico psicosomatico cha ha inventato una lozione per far crescere i capelli, un gruppo di trentenni che cerca una festa di ex  liceali, un cavaliere che si chiama come una sindrome psicotica comune ai nostri giorni.

Mi giro e guardo le finestre di proiezione, mi sembra di vedere Alberto Sordi, Philippe Noiret e Massimo Troisi che mandano un bacio.

Esco dalla sala, attraverso l’atrio e un angelo diventato uomo per amore mi accompagna alla porta.

La saracinesca si chiude per l’ultima volta.

Dall’uscita di sicurezza vedo sgusciare il coniglio che fa uno sberleffo al ragioniere, lo psicanalista sottobraccio a Baby, Raymond e il piccolo orfano che si tengono per mano, il cavaliere che già galoppa tra le automobili. Sono tutti fuori.

Sulla piazza, l’edicolante, una donna con il carrello della spesa e un pensionato con il giornale fresco di stampa sorridono e li salutano.

Paolo Di Virgilio.

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INTERVALLO. Nella buona sorte e nelle avversità

INTERVALLO. Nella buona sorte e nelle avversità

Siamo a Roma, ma potremmo essere in una qualsiasi città dove c’è un cinema e, di conseguenza, almeno un proiezionista, che chiameremo Mr. P.

Qualche Mr. P. è scapolo, conduce una vita felicemente disordinata, dorme fino a tardi, mangia in trattoria, dopo l’ultimo spettacolo vagabonda un po’ per la città e torna a casa dove trova il letto da rifare e un paio di birre in frigo.

Altri vivono ancora in famiglia, eterni adolescenti con la mamma che prepara loro la cena da consumare in cabina tra uno spettacolo e l’altro e non passa l’aspirapolvere prima di mezzogiorno.

Poi ci sono quelli che, per fortuna o per incoscienza, hanno trovato una Mrs. P. E’ di lei che andremo a raccontare, una tra le tante, la compagna di un uomo per il quale il tempo non segue la consueta scansione. Non c’è la sveglia alle sette e la colazione con tutta la famiglia. Non ci sono i pigri fine settimana con la gita fuori porta, la partita allo stadio o il pranzo dai suoceri. Forse è per questo che spesso la “gente dei cinema” trova  il proprio partner tra chi fa parte dello stesso ambiente. Ma non sempre è così, a volte la consorte di Mr. P. è una donna che lavora dalle otto alle cinque, la sera guarda la televisione, ripensa in santa pace alla giornata appena trascorsa, a volte esce con le amiche single. Alle riunioni di famiglia e alle cerimonie va quasi sempre da sola perché lui sta lavorando, deve andare a lavorare, oppure ieri ha lavorato e ora sta riposando.

Eppure Mrs. P. non riesce ad immaginare una vita diversa, è abituata a quei ritmi così inconsueti da diventare una particolarissima consuetudine. Ogni tanto capita un fine settimana libero, vorrebbero organizzare mille cose, ma poi finiscono per godersi la pace casalinga, anche perché  per lui alzarsi presto la mattina è quasi impossibile.

Una sera di dicembre, per una specialissima occasione, Mr. e Mrs. P.  vanno a cena fuori, solo loro due come fosse la prima volta. Ma tra una portata e l’altra arriva una telefonata: c’è un’emergenza in sala 1. Cena finita anzitempo, l’incontro romantico prosegue in cabina di proiezione e finisce tra matte risate pensando alla banalità di una serata perfetta e noiosissima.

Mrs. P. gode di alcuni privilegi.

Non paga l’ingresso al cinema, anche se non ci va quasi mai.

Le ferie durano un po’ più a lungo, quanto la chiusura estiva del cinema.

Sa sempre in anticipo quando ci sarà un’anteprima importante e avrà la possibilità di essere in prima fila, al massimo in seconda, vedere gli attori da vicino e salutarli come fossero vecchie conoscenze, per poi raccontarlo alle amiche.

Le pareti di casa sua sono tappezzate di manifesti cinematografici, arrotolati e messi via in tutta fretta prima che gli inservienti li facciano sparire nelle fauci del cassonetto per carta e cartoncino. Sono sempre un po’ stropicciati, e questo li rende ancora più belli.

Se il cinema per il proiezionista è una seconda casa, per sua moglie è un luogo dove si sente un’ospite d’onore. Come quella volta in cui lui l’ha attirata con l’inganno in sala di domenica all’ora di pranzo e, prima dello spettacolo delle quindici e trenta, le ha fatto trovare un cesto da pic-nic in platea e ha proiettato solo per lei il suo film preferito.

Quante donne hanno trascorso la nottata in giro per i quattro angoli dell’Urbe a cambiare lampade di proiettori,  hanno visto l’alba uscendo da un cinema e hanno fatto colazione con il pane appena sfornato più buono del mondo, rendendosi conto solo dopo che in realtà si trattava di un pasto serale molto in ritardo?

E quella volta che la città era bloccata da una eccezionale nevicata, proiezionisti e cassiere, non disponendo di slitte o gatti delle nevi, non potevano raggiungere il cinema ma gli spettatori erano comparsi magicamente, nonostante il gelo e il rischio di scivolare sul marciapiede ghiacciato, loro due hanno aperto la sala, coppia di dissennati incuranti di ogni più elementare norma di sicurezza, sentendosi un po’ eroi e un po’ fessi.

Mrs. P.

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La quinta puntata. Dicembre 1987, Roma, Cinema Balduina. Il Caso e la statistica

La quinta puntata. Dicembre 1987, Roma, Cinema Balduina. Il Caso e la statistica

Ho da pochi mesi finito di servire la Patria. Saputo del mio congedo Lino, uno dei miei maestri proiezionisti presso la prima sala parrocchiale, mi ha condotto dal suo direttore-capo del personale, il signor Zignani, persona d’altri tempi, di grande rigore morale, insomma un uomo tutto d’un pezzo.

“Ecco, questo è il ragazzo che le dicevo. E’ giovane ma ha già più di dieci anni di cabina come effettivo e, soprattutto, in caso di necessità sa tenere in mano un cacciavite,”.

“Anche un saldatore”, pensai io, con la mia supponenza di proiezionista diplomato perito industriale.

“Bene, Lino, se lo dice lei mi fido. Gli facciamo fare quindici giorni di prova e, se tutto va bene, rimane con noi. Lo mandiamo al cinema Balduina dove il vecchio proiezionista tra pochi giorni andrà in pensione”.

Questo accadeva circa un mese fa.  Ora eccomi qui, col mio contratto a tempo indeterminato e un vecchio cinema da mandare avanti.

E’ grande, il Balduina, ma un po’ in disarmo.

Siamo nel periodo della prima crisi delle sale cinematografiche: l’avvento delle tv private e, successivamente,  del videoregistratore ha convinto molti a rimanere a casa per vedere stancamente film vecchi e nuovi su uno schermo piccolo e decisamente non paragonabile a quello cinematografico.

Anche qui, come nel cinema S.A.R.V.A.M., mi sono dovuto dare un gran da fare per ripristinare una proiezione degna di tale nome. Il vecchio operatore non aveva più voglia di fare la dovuta manutenzione e la società che gestiva le sale non aveva inteso spendere denaro per ammodernarle. “Con questo calo di spettatori non è conveniente sostenere particolari spese”, dicevano.

Il mio occhio tecnico mi faceva rendere conto che questo era un gatto che si mordeva la coda. E’ vero che la qualità del VHS, vista su un televisore dell’epoca, non avrebbe mai potuto competere con quella di una vera proiezione cinematografica. Ma quante vere proiezioni erano rimaste, in città?

Schermi vecchi, proiettori privi di manutenzione, lampade annerite e poco luminose, altoparlanti gracchianti. Questo era il  desolante quadro di molti cinema in quegli anni.

Rendendomi conto che il mio posto a tempo indeterminato non sarebbe durato a lungo in questa situazione, e dando libero sfogo alla mia propensione a esercitare nelle cabine cinematografiche quanto appreso a scuola, mi rimboccai di nuovo le maniche e feci quello che avevo fatto nel cinema della caserma.

Revisionai completamente i proiettori e poi passai al suono. Nel sistema di amplificazione vi era un apparecchio che, all’epoca, sarebbe stato il sogno di qualunque appassionato di alta fedeltà: un equalizzatore grafico a dieci bande, ahimé non utilizzato! Per i non addetti ai lavori è un controllo di tono molto sofisticato che, anziché avere solo la regolazione dei bassi e degli acuti, ha (in questo caso) la possibilità di intervenire su dieci porzioni dello spettro udibile. In parole povere, bassi profondi, bassi, medio-bassi, medio-alti, medi, eccetera.

Normalmente la taratura di un impianto dotato di questo dispositivo va fatta con un apposito strumento. Non ne disponevo. Però avevo buon orecchio, così trascorsi diverso tempo salendo e scendendo le scale tra la cabina e la sala per cercare di ottenere il suono migliore. In realtà non mi accontentavo mai di quello che avevo ottenuto; solo alcuni anni dopo imparai che  per avere nella sala di proiezione il suono “perfetto”, cioè uguale a quello pensato dagli autori e realizzato nelle sale di mixaggio, si deve usare l’analizzatore di spettro

Questo mio saliscendi diventerà una costante negli anni; mi piaceva vedere e rivedere il film, con poche o molte persone, studiare l’effetto che faceva la stessa scena in situazioni diverse, con pubblico diverso, con regolazioni diverse. Imparai che anche piccole variazioni tecniche possono provocare reazioni completamente differenti nello spettatore., ad esempio enfatizzare certe frequenze basse crea maggiore tensione, un suono non corretto sulle frequenze del parlato, pur rendendolo più intellegibile, può creare un affaticamento inconscio con conseguente calo di attenzione.

Questo mio “vizio” di cercare sempre la regolazione migliore mi faceva sentire autorizzato a farlo frequentemente anche  sul televisore di casa, dove non c’era pubblico pagante e quindi mi sentivo libero di intervenire anche a programma iniziato, con conseguenti malumori da parte della famiglia.

Il cinema Balduina era una prima visione di quartiere, la sala aveva una capienza di ottocento posti, l’architettura era molto curata, in pieno stile anni sessanta, ma dalla sua costruzione aveva avuto pochi, o forse nessun miglioramento.

I miei colleghi, Eleonora, la cassiera nubile prossima alla pensione, e Enzo, la maschera tuttofare, erano da tempo integrati perfettamente nella struttura.

Come in tutti i cinema di quartiere, vi era un pubblico abituale ma anche una fauna altrettanto abituale di personaggi che amavano trascorrere tempo nell’atrio facendoci compagnia. Uno di questi era davvero particolare, era stato un assistente universitario di storia del cinema, ormai in pensione e, anch’egli celibe, amava trascorrere intere serate con noi. Non seppi mai il suo vero nome, per noi era “Il Professore”, un uomo minuto che all’aspetto ricordava Albert Einstein. Indossava sempre un vecchio impermeabile bordeaux, parcheggiava la sua Alfasud, anch’essa vecchia e anch’essa bordeaux, sulla piazza e lentamente, attraversando il grande atrio, ci raggiungeva.

Il Professore aveva due soli interessi, il cinema, cela va sans dire, e il gioco del lotto. Non poteva essere considerato un giocatore compulsivo, in quanto a lui non interessava particolarmente l’entità di una eventuale vincita, quanto piuttosto il trascorrere l’intera settimana a fare complicatissimi calcoli statistici per cercare delle possibili combinazioni vincenti. Da bravo tecnico, per giunta appassionato di matematica e statistica, nonché pieno di presunzione scientista, sorridevo di questa sua mania perché, mi dicevo, un numero ha una possibilità su novanta di essere estratto, punto. Di conseguenza ero convinto che qualunque calcolo fosse inutile. Una sera mi balenò il dubbio che sì, era così, però era anche vero che proprio in virtù di questo, i novanta numeri sarebbero prima o poi usciti tutti. In poche parole, cominciai a prendere in considerazione l’idea che dal caos veniva generato un ordine.

Questa riflessione mi sconvolse più o meno come sconvolse il protagonista di un romanzo di Musil quando ebbe a che fare con i numeri immaginari. Per la verità i numeri immaginari sconvolsero anche me quando lessi il romanzo nella cabina del Farnese: il fatto che non fosse determinabile la radice quadrata di meno uno mi fece prendere coscienza dell’evidenza che la nostra matematica è un modello convenzionale molto aderente alla realtà ma tutt’altro che completo.

Sono trascorsi alcuni mesi, il pubblico non si lamenta più della proiezione, anzi gradisce.

Un pomeriggio, scendendo nell’atrio trovo un anziano signore che parla con Enzo. Non è il Professore, del resto questo non è ancora il suo orario.

Mi sembra di averlo già visto.

Non mi sbaglio; quest’uomo compare anche in una delle locandine dei film di prossima programmazione appese nell’atrio, nella foto è vestito da sacerdote e agita una campanella.

Enzo si rivolge a lui: “Ecco, Signor Leopoldo, questo è Paolo il nostro proiezionista”.

“Giovanotto, lei lo sa che quel film”, dice indicando la locandina, “parla del suo mestiere”?

Effettivamente ne avevo sentito parlare ed ero curioso di vederlo.

Paolo Di Virgilio

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La quarta puntata. 1986/1987, Cinema XYZ, Viterbo. Cave Adsum

La quarta puntata. 1986/1987, Cinema XYZ, Viterbo. Cave Adsum

Negli anni 80 del secolo scorso non esistevano cinema con poltrone numerate, il pubblico veniva ammesso in sala fino ad esaurimento dei posti a sedere e, a volte, capitava che qualcuno rimanesse in piedi e guardasse il film poggiato alla parete. Questo cinema non ha neppure poltrone, ma sedili di legno, come di solito  nelle seconde visioni.

Ha anche una galleria, ovvero quella parte di sala che affaccia come un balcone sulla platea. Precisazione doverosa ad uso dei più giovani che probabilmente non ne hanno mai vista una in quanto, con l’avvento delle multisala, sono state trasformate in sale a sé stanti.

La cabina di proiezione è posta sopra la galleria e dal lato opposto al finestrino di proiezione, ha una finestra che affaccia sull’entrata del cinema. Dall’uno vedo la sala piena, dall’altra il piazzale antistante gremito di giovani in attesa di entrare. Afferro il citofono e chiedo istruzioni.

Mi dicono che avrebbero mandato rinforzi per gestire l’afflusso. Dopo circa due minuti l’apparecchio squilla: hanno deciso di aggiungere uno spettacolo in più a quelli già previsti.

Quattro mesi prima.

L’uomo che siede alla scrivania mi ha fatto convocare.

“Di Virgilio, qui risulta che lei è un proiezionista. E’ vero”?

“Si”.

“Le piace la fotografia”?

“Si”.

“Lei è qui da più di un mese, ha visto che abbiamo un bel cinema”?

“Si”.

“Lei è di Roma. Le andrebbe di trascorrere il resto dell’anno qui, facendo il suo lavoro e coltivando una bella passione, anziché fare dieci mesi di guardie in chissà quale posto in Italia”?

Ovviamente risposi “si” anche alla quarta domanda!

Per la seconda volta in poco tempo fui fatto abile ed arruolato. Ma quella che mi era sembrata una proposta “che non si può rifiutare” si rivelò ben presto piena di insidie.

Visitando la cabina fui colto dall’entusiasmo nel vedere che vi erano due bei proiettori 35 millimetri. Ad un esame più attento, che avvenne nell’arco di pochi minuti, di due proiettori ne rimase mezzo, nel senso che uno funzionava poco e male, l’altro aveva marcato visita da tempo ed era stato posto in riposo forzato in attesa di congedo, era praticamente un ferro vecchio.

Il ferro più giovane continuava stancamente a servire la patria a modo suo.

Entrambi necessitavano di urgenti cure e rianimazione. Nelle settimane a seguire mi dedicai all’inizio a quello meno grave. La ricompensa fu che mi consegnai da solo, nel senso che anziché andare in libera uscita proiettavo e rimanevo in cabina a prendermi cura dei malati.

I sintomi erano i seguenti: l’immagine ballava, la proiezione era scura e  la poca luminosità  era tutt’altro che uniforme, la messa a fuoco era a dir poco approssimativa, il sonoro del tutto privo di acuti.

Per prima cosa sostituii il rocchetto di scatto con uno nuovo che la provvidenza mi fece trovare in un cassetto.

Con la  lima e l’aiuto di una morsa rettificai i pattini di proiezione che sono dei pressori che tengono in piano la pellicola nel punto dove riceve la luce per essere proiettata. L’immagine ora era a fuoco e non ballava più.

Centrai la lampada di proiezione e regolai lo specchio parabolico: e luce fu.

Regolai la posizione della fotocellula, poi la messa a fuoco e l’azimut del segmento luminoso che leggeva la colonna sonora.

Nella pellicola cinematografica tutto è scritto per essere letto tramite la luce. La colonna sonora, salvo qualche eccezione, non è una pista magnetica o men che meno un solco, ma una banda trasparente che varia di superficie in funzione delle frequenze e dell’intensità dei suoni da riprodurre. Viene proiettato un sottile segmento di luce mentre la banda scorre; dall’altro lato una cellula fotoelettrica legge le variazioni di luce che passano, le trasforma in variazioni elettriche che a loro volta vengono inviate a un amplificatore. Se il minuscolo segmento non è a fuoco e non esattamente nel giusto asse la qualità dell’ascolto ne risente notevolmente. Non avendo strumenti per una taratura da manuale, collegai una cuffia al sistema d’amplificazione e, ascoltando il risultato, riuscii a regolare decentemente tutti i parametri.

Nel giro di una settimana il primo malato era quasi completamente sanato. Per il secondo ci volle più di un mese di cure. Dovetti infatti smontare tutta la meccanica interna e ottenere dei pezzi di ricambio. Con mia gioia e stupore la sala ebbe un incremento notevole di pubblico, il quale è vero che non pagava il biglietto, ma doveva rinunciare alla libera uscita o a parte di essa per il piacere di vedere un film in compagnia.

In qualche modo mi sentivo responsabile del poco tempo di svago del quale disponevano i miei commilitoni, e la loro soddisfazione valeva per me molto di più del denaro incassato dalla vendita dei biglietti in una sala “civile”.

Me ne resi conto quando, girando per i viali, i nonni non mi chiamavamo più “insetto” o “missile”, ma “cinematografo”.

Di nuovo nell’ufficio del capitano.

“Di Virgilio, lei ha fatto un buon lavoro”.

“Grazie”.

“Il gestore del cinema di Viterbo, dietro compenso, si occupa della nostra programmazione che, a dire il vero, non soddisfa molto né il pubblico né tanto meno il nostro comandante. Che ne direbbe di andare a Roma e fare un’indagine presso la fonte, cioè presso le case distributrici”?

Dopo due settimane diventai anche il programmista del cinema S.A.R.V.A.M. di Viterbo.

Con il budget a disposizione, trattando con i distributori, riuscii ad imbastire una programmazione decente alternando film facili e poco costosi a film di qualità.

Due giorni fa ho proiettato il primo film scelto da me, “Anni di Piombo”, di M. Von Trotta, molto apprezzato dagli avieri più colti (trasversali tra truppa e ufficiali), ma la sala non si è riempita neanche per metà della capienza nel primo spettacolo e appena per  un quarto nel secondo.

Oggi è decisamente diverso, per la prima volta nella storia del cinema della Scuola Addestramento Reclute Vigilanza Aeronautica Militare è stato necessario aggiungere un terzo spettacolo. Molti siedono in terra.

Al termine delle proiezioni spengo la cabina e una volta fuori sento i discorsi di chi ha lasciato casa da un paio di settimane.

“Ué, stasera me so’ sentit  comme si nun fosse partit, Nino c’ha fatt sentì a casa nostra”.

Sorrido e guardo il manifesto del film nella bacheca, la foto di un ragazzo come loro ma con i biondi capelli lunghi a caschetto. Il titolo… “Popcorn e Patatine”.

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La terza puntata. 13 maggio 1981, Roma, Cinema Farnese. Abiti e monaci

La terza puntata. 13 maggio 1981, Roma, Cinema Farnese. Abiti e monaci

La sala cinematografica, per chi ci lavora, diventa una seconda casa, in alcuni casi addirittura la prima. Ognuno ha il suo ruolo, la cassiera è la cassiera, il direttore è il direttore, il gelataio è il gelataio, il proiezionista è il proiezionista.

Il concetto aziendale del “tutti fanno tutto” era di là da venire. In quel tempo ognuno era conscio dell’importanza dell’altro, come nel corpo umano ogni organo ha la sua funzione. Non era raro che fuori dal lavoro ci si frequentasse per passatempo o utilità, mai per obbligo, semplicemente era normale.

Nel mio caso, questa appartenenza era ancora più sentita; i miei zii che gestivano e lavoravano al cinema Farnese erano per me due volte famiglia.

Fu con entusiasmo che per un periodo andai a casa loro, al di fuori dell’orario di lavoro, per dare ripetizioni di inglese a mia cugina Serena, allora scolaretta delle elementari. Questa attività mi rilassava, anche perché era stupefacente la curiosità, e di conseguenza il buon esito, che la bambina aveva nell’apprendere cose nuove.

Questa esperienza fece nascere in me, molti anni più tardi, il desiderio di insegnare il mio mestiere a chi desiderasse apprenderlo. Ma questa è un’altra storia.

Il pomeriggio del 13 maggio 1981, poco dopo le cinque, finita la lezione, ero uscito da casa loro, che si trovava dalle parti di via Gregorio VII, a due passi dalla basilica di San Pietro.  Decisi di recarmi a via della Conciliazione perché sotto al portico antistante il colonnato c’erano numerosi telefoni a gettone. Data la mia scarsa propensione a trascorrere troppo tempo in casa, conoscevo tutti i luoghi dove avrei potuto fare una lunga telefonata in pace, senza che si formasse la coda davanti alla cabina telefonica, e quello era uno di quei posti.

Ero al telefono da circa cinque minuti quando sentii senza darvi troppa importanza, due colpi secchi venire dalla piazza. Meno di un minuto dopo un signore mi esibì un tesserino e mi urlò “sono un poliziotto, mi lasci il telefono”!

Non feci in tempo ad obiettare che ce ne sono tanti altri liberi che lui aggiunse “hanno sparato al Papa”.

Lasciai il telefono, guardai verso la piazza. Gente che piange, gente che corre, gente che grida, l’Uomo dalla veste bianca con una vistosa macchia rossa che veniva portato via velocemente. Mi allontanai. Attraversai a piedi Borgo Pio, rumore di sirene, elicotteri, capannelli nei bar. Sembrava un formicaio impazzito dove nessuno si sente più al proprio posto ma non riesce a muoversi per andare altrove.

Alcuni giorni dopo sono di nuovo al cinema e, come sempre accade in queste circostanze, si commenta, si parla, si racconta. Ognuno ha più voglia di ascoltare che di parlare, è un posto dove il tempo sembra seguire altre regole, è come dilatato, Kronos, qui, è meno vorace.

Chi, invece, vorace non lo è per niente è Lilla, la pastora tedesca di Efisio, lo storico gelataio del cinema Farnese, che lo aspetta ogni giorno accucciata nel suo angoletto.

Efisio è minuto come molti suoi conterranei, fiero ma mai arrogante.  Da alcuni giorni è tornato da un periodo di malattia. Durante la sua assenza è’ stato sostituito da un ufficiale in pensione, un uomo per molti versi differente da lui, ma simile nella sua dignità. Vestiva proprio come un vecchio ufficiale in pensione, la giacca consunta ma pulita e stirata, la cravatta a farfallino e l’orgoglio delle sue medaglie al valore esibito sul bavero. Prima di entrare in sala riponeva con cura la sua giacca nel magazzino dei dolciumi per indossare  la casacca bordeaux da gelataio.

Dal giorno precedente da quel magazzino giungevano nell’atrio gli echi di animate discussioni: Efisio, rimessosi dalla malattia, rivoleva il suo posto; il vecchio ufficiale tentava di convincerlo che lui era disposto a restituirglielo ma, da bravo militare, non poteva farlo senza aver ricevuto precise disposizioni dal comandate, ossia dal gestore del servizio. Efisio ribatteva che si era accordato con il predetto gestore sul fatto che sarebbe rientrato appena guarito e siccome lo era, il sostituto avrebbe dovuto andarsene. Trovava del tutto fuori luogo disturbarlo affinché ufficializzasse la fine del suo congedo.

Oggi le discussioni erano diventate particolarmente accese, zia Nicoletta aveva deciso che era tempo di chiedere in prima persona l’intercessione del gestore del servizio ristoro affinché il Farnese tornasse ad essere un locale serio e non un cinema-varietà con annesso spettacolo di cabaret più adatto a militari in libera uscita che al suo abituale pubblico.

Ci stavamo consultando sull’opportunità, o piuttosto sull’urgenza, di compiere tale gesto quando Efisio comparve con il sorriso soddisfatto di chi si è appena tolto un paio di scarpe strette. Tale sorriso non tranquillizzò affatto mia zia e ancor meno la tranquillizzò la frase sibillina di Efisio: “Il problema è risolto. Adesso voglio proprio vedere cosa fa”.

“Cosa hai fatto, Efisio”?

“Quello è un vecchio rimbambito, è andato a vendere in sala e ha lasciato la chiave del magazzino sulla porta”

“Quindi”?

“Ho chiuso la porta con la chiave e l’ho lanciata dentro da sopra”

Silenzio

Dopo un minuto il vecchio ufficiale raccolse tutte le sue forze di antico combattente e irruppe come una furia nell’atrio.

“Dammi la chiave”!, urlò.

“Vattela a prendere”, fu la risposta, “è dentro il magazzino, così impari a lasciarla sulla porta”.

Il colonnello si rese conto che il suo errore lo aveva portato a perdere la battaglia e la guerra, forse per questo rinunciò al tentativo di scassinare la porta per recuperare la sua giacca e le sue medaglie. Dignitosamente si strinse nella giacchetta bordeaux  e si avviò verso l’uscita.  Non lo rivedemmo più, dovemmo fargli recapitare a casa da un fattorino la giacca con i suoi cimeli.

Mi rimane impresso il suo incedere per piazza Campo de’ Fiori, la sua compostezza, il suo sentirsi a posto anche dopo una sconfitta.

Anche Efisio era di nuovo al suo posto, il nostro piccolo microcosmo aveva ritrovato il suo ordine.

Molti anni dopo avrei detto: tutto è giusto e perfetto.

Paolo Di Virgilio

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La seconda puntata. Ottobre 1980, Roma. Cinema Farnese

La seconda puntata. Ottobre 1980, Roma. Cinema Farnese

Da più di un anno sono un proiezionista patentato. Dopo l’abilitazione sono volato via dalla sala parrocchiale e, passando per un locale di borgata, sono approdato qui a Campo de’ Fiori. Dall’atrio del cinema si vede la statua di Giordano Bruno, martire del libero pensiero.

Ha senso che questo cinema sia proprio qui perché è un cinema libero, gestito da un appassionato vero, Gianni, e da sua moglie Nicoletta, per me Zia Nicoletta, cugina di mio padre.

Per un lungo periodo il Farnese è stato a Roma un riferimento per tutti i cinefili più incalliti. Ogni giorno un film diverso, rigorosamente di qualità. La programmazione mensile veniva stampata su un opuscolo tascabile che ogni appassionato portava con sé per pregustare le giornate destinate a compiacere il suo interesse primario.

Frequento l’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale e lavoro qui 3 o 4 giorni la settimana. Esco da scuola, salgo sull’autobus, arrivo e mi sbrigo a “montare” il film.

Sì, perché la copia non arriva in due bobine pronte per essere proiettate, ma divisa in parti di circa venti minuti l’una, che devono essere unite nel giusto ordine e poi la sera, al termine della programmazione, di nuovo smontate e messe nelle loro scatole di latta.

La cabina di proiezione non è accessibile dalla sala, ci arrivo passando per un portone a via dei Giubbonari, salgo un piano di scale e attraverso un minuscolo cortile interno dove c’è un  vecchio lavatoio in disuso.

A causa di questo percorso obbligato trascorro poco tempo nell’atrio o in sala; ad ogni intervallo infatti, sarei costretto a compiere questo cammino e non sempre ne ho voglia.

La cabina è ancora una volta il mio rifugio. Da un po’ di tempo non amo stare in compagnia, una strana malinconia è con me in ogni momento, le domande sul senso del nostro vivere e morire sono riflessioni ricorrenti. La ricerca delle risposte un imperativo compulsivo.

Non faccio che vedere film e leggere. Leggo di storia, filosofia, religioni e letterature varie. Credo che sia qualcosa di simile a ciò che Leopardi chiamava “studio matto e disperatissimo”.

Solo la sera preferisco scendere nell’atrio o andare in sala.

A volte osservo la piazza e la sua umanità varia: turisti euforici per il loro soggiorno romano, vecchi camerieri che servono ai tavoli dei bar, anime perse intorno alla statua che  non cercano l’ispirazione per ritrovarsi, ma piuttosto chi venderà loro la dose quotidiana per perdersi ancora di più.

Da un po’ di giorni però è diverso, non c’è il consueto cambio quotidiano di programmazione.

E’ capitato un film che doveva rimanere un intero week end perché era un proseguimento di prima visione, per meglio dire, un film che non aveva avuto il successo sperato ed era finito presto qui.

Gianni aveva deciso di programmare quella pellicola per due o tre giorni.; gli era piaciuta e sperava che piacesse anche al suo pubblico abituale.

I tre giorni erano diventati una settimana, poi due, ed ora siamo alla terza consecutiva.

Entro in sala, mi piace vedere e rivedere le stesse scene in momenti diversi, godermi lo spettacolo con un pubblico differente sia per consistenza numerica che per fascia d’età.  Si riceve un contagio che amplifica le emozioni.

La platea è elettrizzata, il pubblico si diverte e si entusiasma. Ci sono bluesmen leggendari, suore pinguine e una vecchia  Dodge inseguita da mezzo mondo.

La scena che sta passando sullo schermo è ambientata in un tempio battista dove tutti ballano e cantano, James Brown vestito da improbabile prete, indica uno dei due uomini in abito da becchino e Wayfarer  e grida:  “Lui ha visto la luce, lui ha visto la luce!”

E’ passata da poco mezzanotte, chiudiamo la saracinesca, andiamo ognuno per la propria strada.

Raggiungo la fermata dell’autobus notturno, il 446 è appena passato.

Decido di non aspettare mezz’ora  e faccio un giro per Piazza Navona.

Mi piace passeggiare qui tra ritrattisti, musicisti di strada e maghi che leggono la mano a lume di candela.

Incrocio coppie di aspiranti amanti, vagabondi in cerca di un pasto, stranieri persi nella Bellezza.

Ognuno in cerca della propria Luce.

Paolo Di Virgilio

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La prima puntata. 18 marzo 1978, Cinema Virtus, Roma. Sabato di piombo

La prima puntata. 18 marzo 1978, Cinema Virtus, Roma. Sabato di piombo

Nove di sera. Il contenitore per la cena appoggiato sul proiettore mi consentirà di fruire di un pasto caldo.

A diciassette anni ho già acquisito questa abitudine da proiezionista consumato. Dopo la partenza del terzo spettacolo approfitterò del momento di quiete per consumare la mia cena.

Tutto è iniziato qui, cinque anni fa. La porticina della cabina di proiezione dava sul cortile del circolo ricreativo dove mio padre trascorreva i suoi momenti liberi dopo il lavoro; a volte andavo a trovarlo e quella piccola porta attirava spesso la mia attenzione. Veniva da lì uno strano rumore continuo composto da tanti scatti, ventiquattro al secondo. Sapevo che  in quella stanzetta l’uomo che si aggirava intorno a una strana macchina era il mago delle illusioni, quelle illusioni che venivano pagate al prezzo di un biglietto acquistato presso la grande entrata.

Un giorno mi feci coraggio, salii quei cinque gradini ed entrai nella stanza magica senza bussare. Il Signore della stanza magica rimase stupito nel vedermi, un adolescente magro con i capelli in disordine e gli occhi verdi pieni di meraviglia.

“E tu cosa ci fai qui”?

“E’ vero che quello è il film”? dissi indicando le bobine che scorrevano nel proiettore.

Il Mago sorrise.

“Sì, questo è il secondo tempo. Quell’altro è il primo” mi disse indicando un tavolo di marmo su cui erano fissati due bracci sui quali si trovavano due bobine. Quello con la bobina vuota recava una manovella.

“Perché è lì”?

“Perché è al contrario, la fine è al posto dell’inizio; è stato appena proiettato. Quindi ora bisogna rigirarlo”.

Detto questo, iniziò a girare la manovella riavvolgendo il film.

“Posso provare io”?

Smise di girare, mi guardò per un attimo e mi disse “sì, dai, prova, ma fai piano”.

Mi sentii grande, anche se verso la fine , quando quasi tutto il film era passato nella bobina con la manovella, la fatica cominciava a farsi sentire, ma soprattutto ero contento perché di lì a poco il frutto del mio lavoro sarebbe stato proiettato sullo schermo.

Nelle settimane successive cominciai a frequentare regolarmente quel posto. Al proiezionista non dispiaceva la mia presenza; in fondo il mio “rigirare i tempi” (si diceva così) lo sollevava da un po’ di fatica. In cambio, ogni tanto, mi svelava qualche segreto del suo mestiere. Per quattro anni quella fu la mia oasi di tranquillità rispetto alla scuola, alla casa, alla mia scarsa propensione a socializzare con i miei coetanei.

Mi trovavo bene a respirare l’ambiente di chi lavora in giorni ed orari anomali, eravamo una specie di famiglia. Pino e Mario, gli studenti universitari che si occupavano della cassa, Luigi, il vecchio strappabiglietti che arrotondava la pensione, Peppe,il gelataio che portava la sua cassetta zoppicando, con la  voce squillante che annunciava il suo ingresso in sala ad ogni intervallo.

Quando compii sedici anni il proiezionista vinse un concorso e diventò ferroviere. Il posto quindi rimase vacante. Io non avevo né l’età né l’abilitazione per esercitare da solo questo lavoro, però questi requisiti fortunatamente li aveva… il parroco! Sì, perché quella era una sala parrocchiale aperta solo tre giorni a settimana ed era poco appetibile come impiego definitivo per un professionista della cabina. Mi proposero di rimanere e di essere stipendiato, il parroco si sarebbe fatto vedere ogni tanto ma io sarei stato il nuovo Mago della proiezione.

Torniamo alla mia cena riscaldata. Il terzo spettacolo sta per terminare, carico il primo tempo sul proiettore, faccio scoccare l’arco voltaico alcuni minuti prima dell’inizio dell’ultimo spettacolo. La voce di Pino che proviene dalla cassa mi dice di aspettare a partire perché ancora non è stato venduto neppure un biglietto. A quel tempo non era una cosa usuale, soprattutto il sabato sera, ma quel sabato era diverso. La mia oasi mi aveva estraniato dal clima dei tre giorni precedenti.

Ancora cinque minuti, ci rendiamo conto che è inutile attendere oltre. Torno in cabina, spengo il proiettore, ci ritroviamo tutti nell’atrio, in silenzio abbassiamo la saracinesca. Anche questa sera siamo in strada, immersi nella stessa atmosfera delle due sere precedenti, le vie quasi deserte, qualche macchina della polizia. Ci rendiamo conto che nessuno oggi ha voglia di distrarsi. Tre giorni fa, a due chilometri da qui, è accaduto qualcosa che segnerà la storia del nostro Paese. Cinque uomini a terra e uno caricato a forza su un’automobile.

Camminando vediamo dalle finestre la luce intermittente dei televisori, molti si domandano dove sarà quell’uomo, ma soprattutto cosa succederà ora.

Paolo DI Virgilio

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