La diciottesima puntata 1974 Roma Cinema Virtus Game over

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La diciottesima puntata 1974 Roma Cinema Virtus Game Over

1974, Roma, cinema Virtus           Game Over

Da un po’ di tempo frequento la cabina della sala parrocchiale vicino casa.

Come in tutti i cinema di quartiere oltre al personale che vi lavora abitualmente ci sono degli ospiti più o meno fissi che vengono in gradita visita.

Uno di questi si chiama Manlio. Imparò anche lui il mestiere di proiezionista in questa cabina, poi passò oltre. Divenne un affermato montatore nonché curatore di edizioni italiane di film importanti. Oggi ci parla della sua ultima fatica, la versione per i nostri schermi di un musical visionario che parla di un bambino che perde la vista, l’udito e la parola e che si riscatterà divenendo una sorta di messia quando, da adulto, riacquisterà i sensi.

A quell’età la mia passione per la musica era addirittura superiore a quella per il cinema. Riconobbi dalla storia ciò a cui si riferiva.

Ma è Tommy! L’opera rock degli Who! Ne hanno fatto un film?”

Manlio sorrise sotto i folti baffi.

La conosci?”

Sì che la conosco. Mi piace moltissimo.”

Passano alcune settimane e un mercoledì Manlio ci da appuntamento al cinema, che nei pomeriggi infrasettimanali è chiuso.

Porta con sé alcune scatole di metallo contenenti le parti di un film.

Giancarlo, il mio maestro, le monta e le carica sul proiettore. Non si tratta del film intero ma dei brani più salienti.

Sullo schermo compare Elton John vestito di verde con delle buffe scarpe dai tacchi altissimi. Dovrà sostenere una sfida con il ragazzo cieco e sordomuto per il titolo di campione del mondo di flipper.

Sullo sfondo gli Who accompagnano le musiche potentissime.

Rimango estasiato tra le sedie di legno della platea.

Da quel giorno metterò da parte per mesi la paghetta settimanale e a giugno finalmente riuscirò ad acquistare “Tommy, The Original Soundtrack” al prezzo di lire settemila.

Il mio primo disco vero.

1977, Roma, cinema Abadam

Il mio primo vinile è ormai consunto, la copertina interna lo è ancora di più, sfogliata più e più volte fino a imparare a memoria i testi di tutti i brani.

Suona la campanella. Le lezioni sono finite. Mi incammino verso la fermata dell’autobus con la mia compagna di classe preferita, Filomena, detta Lilly. Ha un anno più di me, è una delle poche ragazze che frequentano l’istituto tecnico industriale.

Sai che tra due giorni nel cinema di borgata fanno quel film di cui mi hai parlato tanto?”

Quale film?”

Tommy. Vorrei tanto vederlo”.

Lilly mi piaceva moltissimo, colsi il suo invito, neanche troppo velato, e le proposi di venire al cinema con me, forte anche dei mezzi economici dei quali disponevo grazie alle mie prime paghe da mago della proiezione nella sala parrocchiale.

E’ il grande giorno.

Spettacolo pomeridiano, vado alla cassa, acquisto i biglietti ed entriamo.

Siamo gli unici due spettatori.

La proiezione inizia. Disquisisco sulla mediocre qualità della stessa, dandomi arie da tecnico consumato.

La musica e le immagini prendono il sopravvento. Mi lascio coinvolgere ancora una volta, estraniandomi momentaneamente dalla sala vuota e dalla presenza di Lilly.

Forse fu in seguito a questo che lei decise che saremmo stati solo buoni amici.

3 settembre 2005, Roma, Fori Imperiali

Tardo pomeriggio.

Parcheggio la Yamaha Drag Star nei pressi di largo Argentina. C’è folla, raggiungo a piedi l’altare della patria. Faccio fatica a percorrere Via dei Fori Imperiali, piena come un autobus nell’ora di punta.

Giunto quasi a metà riesco a malapena a vedere il grande palco ai piedi del Colosseo.

Un fragoroso applauso accoglie l’ingresso di Elton John. E’ un rotondetto signore di mezza età. Si siede al pianoforte, poche note e parte inconfondibile l’arpeggio velocissimo di “Pinball Wizard”. Lo vedo trasformarsi sotto i miei occhi nel campione di flipper di trent’anni prima con vestito verde, tacchi, occhiali e tutto il resto.

A metà del brano sento un suono che non è di un flipper né di un pianoforte.

E’ il mio telefono.

Ho avuto la domenica libera a patto di essere reperibile, quindi rispondo.

La voce di Fabio, incredibilmente, sovrasta i suoni e i rumori dell’ambiente.

Dove sei? Devi correre all’Intrastevere.”

Sono a via dei Fori Imperiali, ci metto un po’ a uscire. E’ proprio necessario?”

Sì. E sbrigati pure, hanno una sala ferma!”

Cammino mestamente a ritroso tra la folla, raggiungo la moto e in pochi minuti sono a destinazione.

Vengo sempre volentieri qui, anche se questa volta ne avrei fatto volentieri a meno.

E’ un posto accogliente, e poi c’è Stelio, una persona speciale che sa trasmetterti tranquillità e forza anche se il mondo sta per crollare.

Faccio il mio lavoro e mi trattengo ancora un po’. E’ ormai notte quando risalgo sulla moto, ma non torno a casa, decido di fare un giro per i cinema che stanno chiudendo.

Passo davanti al Mignon. Qualche anno fa qui ritrovai Manlio che, per nostalgia o per necessità, volle tornare dopo tanti anni a fare il proiezionista.

2019, Roma, Via Bitinia.

La sala è piccola, le pareti rivestite di materiale fonoassorbente grigio, vestigia di quello che tanti anni fa fu uno studio di doppiaggio.

Lo schermo è enorme in rapporto alle dimensioni del locale.

Per la prima volta ho un cinema mio. Nel realizzarlo ho messo tutto quello che ho imparato in questi anni e oggi voglio fare una proiezione solo per me.

Le luci sono spente, l’impianto ha una potenza notevole; il dvd contiene l’audio rimasterizzato di un film uscito quarantacinque anni fa.

Partono le prime scene.

Inghilterra, seconda guerra mondiale.

Un aviatore parte per il fronte.

Musica fragorosa, inizia il canto del narratore mentre le immagini mostrano un postino che consegna una lettera a sua moglie

Captain Walker will never come home. His new-born child will never know him…”

Suo figlio Tommy nascerà, perderà la vista, l’udito e la parola e viaggerà dentro se stesso.

Insieme alle scene fluiscono i ricordi, la vita mi scorre davanti attraverso occhi nuovi, come quelli di Tommy che, riacquistando la vista, rimarrà abbagliato dal sole.

A volte bisogna lasciar andare il tutto per ritrovarlo e comprenderlo.

Paolo DI Virgilio

Indirizzo

Via Bitinia 43 Roma

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La diciassettesima puntata 8 aprile 1997, Roma, cinema Nuovo Olimpia Notturno Blues

La diciassettesima puntata 8 aprile 1997, Roma, cinema Nuovo Olimpia Notturno Blues

8 aprile 1997, Roma, cinema Nuovo Olimpia                                                     Notturno Blues

 

                                                         

Mezzanotte circa. Quelli come me conoscono bene l’odore della notte, tornano a casa dopo l’ultimo spettacolo, a volte poco prima dell’alba perché gli interventi di manutenzione e riparazione preferiscono farli subito dopo la chiusura anziché al mattino, quando tutti se ne vanno e alla stanchezza subentra una lucidità che consente di vedere ciò che che con la luce del giorno rimane nascosto.

 

Gli operai hanno terminato il montaggio delle poltrone e se ne vanno, io chiudo le porte, mi fermo ancora un po’ nell’atrio e penso. Penso a circa vent’anni fa, quando venni qui con i miei amici a vedere per la prima volta un film di cui parlavano i nostri fratelli maggiori, “Woodstock, tre giorni di pace, amore e libertà”.  La sala era piena, eravamo seduti in terra,  il suono era fastidiosamente gracchiante, ma non aveva molta importanza. L’importante era essere lì, essere tanti.

 

Dopo alcuni mesi il cinema chiuse, ne fecero un archivio lasciando la struttura pressoché inalterata. Poi, un anno fa, quando iniziai a lavorare per il circuito che lo gestisce tuttora, Fabio mi annunciò: “Riapriamo il Nuovo Olimpia”.

I lavori furono completati velocemente, tre squadre si alternavano, il cantiere era aperto ventiquattro ore su ventiquattro e dopo pochi mesi eravamo pronti per la riapertura di questa storica sala nel cuore della città.

 

Qui la prima proiezione avvenne nel  1898, effettuata dai fratelli Lumière in persona venuti in Italia a presentare, in quello che all’epoca era un teatro,  la loro invenzione, le Cinématographe. Tra pochi giorni, quasi un secolo più tardi, il cinema tornerà ancora una volta tra queste antiche mura.

 

Il sistema di proiezione delle due sale si trova in un’unica cabina, con due apparecchi uno opposto all’altro.

Dopo essermi occupato del montaggio dei proiettori, ora finalmente, a sala vuota, nel silenzio della notte, posso dedicarmi a uno dei miei momenti preferiti, la taratura dell’impianto audio.

Impiego circa un’ora per la sala principale, ma… la copia del film non è ancora arrivata. Non resisto alla curiosità e, anche se non è una procedura del tutto ortodossa, lo provo mettendo della musica. Avvio il lettore  e vado in sala.

Parte il primo pezzo di una raccolta di musica blues di varie epoche, è un brano di Robert Johnson degli anni ’30.

Niente è casuale, non lo è neppure la scelta apparentemente fortuita di questo album.

 

Seduto tra le poltrone di velluto rosso mi lascio andare all’ascolto e ai pensieri. Socchiudo gli occhi e  immagino quante persone hanno vissuti qui momenti importanti, quasi riesco a vedere ancora i volti sorridenti di un uomo e una donna che sono entrati qui da perfetti sconosciuti e ne sono usciti con quello che sarebbe stato il compagno di tutta la vita.

Accadde così anche a mio padre e a mia madre, si conobbero in un cinema negli anni ’50, la sala era piena e mio padre Ermanno chiese ad Agostina se avesse avuto la cortesia di tenere il suo posto mentre si alzava per qualche minuto. Al termine della proiezione andarono via insieme e così, alcuni anni dopo, arrivai io.

 

Scorrono i brani, ad un certo punto una voce familiare, un ricordo…

 

Quattro anni prima esco dal nuovo Sacher dopo l’ultimo spettacolo, attraverso la strada e percorro pochi metri, sono davanti al Big Mama, un locale di Trastevere conosciuto come la casa del blues.

Da alcuni giorni è tornato a Roma per diverse serate un uomo speciale, poco più che sessantenne. Viene dal sud degli Stati Uniti e per questo si fa chiamare Louisiana Red.

Entro e saluto Daniele, il mio amico che è alla cassa.

“Dai, scendi, stasera è meglio del solito, è davvero ispirato”.

Due sere prima, nel mio giorno libero, ero riuscito a vedere un suo concerto per intero.

Stasera sta suonando già da più di due ore. E’ seduto, un omone alto e leggermente curvo, i capelli crespi su un viso espressivo e particolare. Non conobbe mai sua madre, una nativa Cherokee morta pochi giorni dopo la sua nascita;  fino all’età di cinque anni fu cresciuto da suo padre, ucciso nel 1937 in un linciaggio ad opera del Ku Klux Klan.

Nel mignolo della mano sinistra ha un collo di bottiglia che scorre sulle corde liberando le note dal giogo della scala temperata.

Gli ascoltatori sono incantati,  come se davanti ai loro occhi scorresse il film della vita errabonda dell’ultimo autentico bluesman.

 

Le dodici batture tipiche del blues si ripetono tante volte, in un movimento circolare che gira, gira, gira. Gira come una bobina di proiezione e questa volta arriva da cuore a cuore.

Il concerto è finito, rimango a parlare con Daniele.

Pasquale, il gestore del locale, sale con Louisiana che ha in mano una vecchia chitarra acustica, si siede sulle scale e ricomincia a suonare sommessamente. Pasquale deve accompagnarlo alla pensione e dovrà convincerlo a lasciare qui la chitarra. E’ un accordo che ha preso con l’albergatore per evitare che passi tutta la notte a suonare.

Usciamo tutti e quattro, ognuno va per la sua strada.

 

Le ultime note di Alabama Train sfumano tra le poltrone di velluto rosso, mi alzo, chiudo la cabina, spengo le luci, attraverso l’atrio al buio, esco e abbasso la saracinesca.

Con un colpo di pedale accendo la Vespa, percorro via del Corso fino a piazza Venezia, è tardi, fa freddo, poche macchine, giro in direzione di corso Vittorio, il rumore della Vespa sembra quello di un vecchio treno che sferraglia sotto il sole della Louisiana.

 

 

 

 

Paolo DI Virgilio

 

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La sedicesima puntata 29 ottobre 1997. Roma, Cinema Europa Luci e suoni….Illusioni?

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La sedicesima puntata 29 ottobre 1997. Roma, Cinema Europa Luci e suoni….Illusioni?

29 ottobre 1997.  Roma,  Cinema Europa                                                          Luci e suoni….Illusioni?

 

Il cinema Europa  fa parte di un gruppo di sale cinematografiche volute da un produttore ed esercente illuminato che per primo a Roma si preoccupò di avere audio e  proiezione di alto livello, senza badare a spese. La qualità deve rispettare lo stato dell’arte, il coinvolgimento dello spettatore deve essere totale, in perfetta comunione con l’autore.

 

Sono qui in veste di responsabile tecnico della mia società per vigilare affinché stasera tutto sia perfetto.

 

Pomeriggio.

 

Posiziono il microfono in un punto medio della sala. Vado in cabina, accendo l’analizzatore di spettro e il processore, faccio partire il rumore rosa ed effettuo l’equalizzazione.  Dopo aver controllato i livelli dei canali, passo alla taratura della luce.

 

Amo questo lavoro di cesello,  mi piace sentirmi il tramite tra chi ha fatto il film e chi stasera lo vedrà per la prima volta, però mi manca il premere il pulsante, spegnere le luci, aprire la benda…

 

Sera.

 

Pubblico delle grandi occasioni, solo su invito.

 

Anni fa la maschera, o meglio ancora mascherina, era la ragazza che accompagnava i ritardatari in sala trovando loro posto. Questa figura scomparve quando non fu più consentito l’ingresso in sala a spettacolo iniziato.

 

Stasera le maschere sono riapparse, in senso letterale: il pubblico in sala viene accompagnato da Mangalores. mercenari alieni presenti nel film che sta per essere proiettato.

 

 

Manca poco all’inizio, vado in cabina. Il film è adagiato su un piatto automatico (l’uroboro).

Sale un responsabile della produzione e spiega che quando le luci verranno spente ci sarà un gioco di laser e musica che durerà alcuni minuti. A un certo punto davanti allo schermo ci saranno tre esplosioni simultanee; il film dovrà  partire immediatamente dopo.

 

Leggo la preoccupazione sul volto del giovane proiezionista.

Cerco di tranquillizzarlo.

“E’ un’anteprima particolare, una bella esperienza.”

“Non ho mai fatto una cosa del genere.”

 

Mi rendo conto che è una richiesta d’aiuto. Una richiesta che accolgo volentieri, i pulsanti  sono lì che mi chiamano, il proiezionista che continua a vivere in me esce allo scoperto.

 

Ripenso alle indicazioni di qualche minuto fa. E’ necessario che il proiettore parta velocemente, il tempo fra avvio del motore e proiezione deve essere brevissimo.

Estraggo dalla borsa un dispositivo che nei proiettori a controllo elettronico  serve a programmare l’accelerazione della partenza del motore.

Faccio in modo che la rampa di accelerazione consenta di giungere in soli tre secondi  alla fatidica velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo.

Faccio scorrere un pezzo di coda, che non si trova alla fine come il nome suggerirebbe, ma all’inizio,  in modo che ne rimangano quattro secondi.

 

Dal citofono una voce concitata gracchia “spegnere le luci” .

Eseguiamo.

 

Dalla finestra di proiezione vedo muoversi scie colorate e sento una musica che esce da un impianto aggiuntivo. Mantengo l’attenzione e cerco di capire quando sarà il momento giusto.

La musica sale, sale ancora. Di colpo si interrompe. Buio. Dal boccascena, a pochi metri dallo schermo,  tre esplosioni in linea. Motore. Quattro, tre, due, uno. Suono, immagine.

 

Filmauro presenta.

 

Un film di Luc Besson.

 

Il proiezionista trae un sospiro di sollievo e mi guarda con gratitudine.

 

“Hai visto? E’ stato facile. La prossima volta tocca a te.”

 

Vado in sala e trovo un posto libero.

 

La storia è coinvolgente, c’è una sorta di monaco che in un futuro prossimo cerca un quinto elemento per salvare la terra. Mi rendo conto che non sono solo uno spettatore, sono diventato parte del pubblico. Ora  le emozioni si formano e circolano tra tante individualità che a un certo punto non sono più tali. La sala è come un tempio, isolato dal mondo esterno. Quello che vediamo è una luce riflessa sullo schermo proveniente da una minuscola apertura di pochi centimetri quadrati dove essa è tutta concentrata. La pellicola che vi scorre davanti non è altro che un filtro variabile nel tempo che sottrae alla luce pura e abbagliante alcuni colori e così non vediamo più il bianco che tutto contiene ma il rosso, il blu, il giallo e tutte le loro combinazioni. Il loro perenne mutamento provoca gioia, tristezza, paura, riso.

 

Il film finisce. Mezza luce. Titoli di coda. Luce piena.

 

Lascio la sala insieme al pubblico, mi fermo fuori ad ascoltare i commenti.

 

“Sì, niente male”, dice un quarantenne magro vestito con un loden beige e occhiali dalla montatura robusta, “però la scenografia mi lascia perplesso, è sfacciatamente ispirata a Moebius”.

 

Lo guardo. La mia memoria fotografica torna ai titoli di coda:

 

… Musiche: Eric Serra

 

   Scenografia:…Moebius!

 

Salgo sulla Yamaha Virago, metto in moto, vado dritto verso Corso d’Italia. Dopo il semaforo rallento, passo davanti a un cinema chiuso da anni, il cinema Avila….

 

Mi ritorna in mente la domanda del messia riluttante all’aviatore nella storia che lessi proprio in quella cabina. “Donald, perché sei qui?”. Ogni risposta conteneva sempre le stesse due ragioni: per imparare e per divertimento.

 

Accelero, do un colpo al pedale del cambio. Sorrido pensando alle due ruote che prendono velocità. Come le bobine di un proiettore.

 

 

 

Paolo DI Virgilio

 

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La quindicesima puntata Estate 1996, Roma, cinema Pussycat XXX – Una puntata a luci rosse

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La quindicesima puntata Estate 1996, Roma, cinema Pussycat XXX - Una puntata a luci rosse

Estate 1996, Roma, cinema Pussycat                                           XXX – Una puntata a luci rosse

 

 

Otto e trenta della mattina. Squilla il telefono. Rispondo con voce assonnata. 

 

“Pronto….”

“Aho’! So’ Sarandrea. Che stavi a dormi’?”

“Beh, sì. Ieri sera ho fatto le tre per le prove al Cineporto che apre stasera. “

“Vabbè, ormai sei svejo. Me dovresti da anna’ subbito ar Pussicatte che stanno fermi.”

“Ma… a quest’ora?”

“Quelli apreno fra poco. E’ ‘n cinema a luci rosse, vicino alla stazzione”

“Ma che è successo?”

“S’è scassata ‘a cellula der sonoro. Ja’a devi cambia’. Quella nova già sta llì.”

 

Sandro Sarandrea è un vecchio tecnico romano che non si è mai voluto legare ad una casa produttrice di proiettori, un battitore libero, come si dice nell’ambiente. E’ famoso per essere sempre pronto a intervenire e avere sempre il pezzo di ricambio. Diventammo amici ai tempi del cinema Balduina, quando mi propose di iniziare una collaborazione che mi avrebbe portato, un giorno, a gestire la sua attività. Non me la sentii ma  l’amicizia rimase, anche quando ebbi una mia ditta e lui si era rassegnato a chiudere prima o poi la sua per sopraggiunti limiti di età. Il momento era arrivato da un pezzo, ma lui sembrava non curarsene, così spesso lo aiutavo.

 

Bevo velocemente un caffè solubile, faccio una doccia quasi fredda, prendo lo zaino con i ferri e salgo sulla vespa.

 

Arrivo a destinazione e con mia grande sorpresa vedo che il cinema non solo è aperto, ma stanno proiettando.

Mi accoglie un arabo con una vistosa cicatrice sul volto. E’ gentile e parla perfettamente italiano. E’ una sorta di factotum, cassiere-direttore.

 

“Ti manda Sarandrea?”

“Sì, ma mi ha detto che eravate fermi, invece state proiettando”

“E’ vero, un proiettore funziona, ma l’altro no”

“E allora qual è il problema, che urgenza c’era?”

“Il problema è che con un proiettore solo bisogna fare l’intervallo, e qui non ci sono abituati. La luce in sala viene accesa solo alla sera per la chiusura.”

 

Non capisco. O forse sì. Comunque ormai sono qui e mi adeguo.

 

Entro in cabina. L’anziano proiezionista in disarmo mi saluta con un cenno. Effettuo l’intervento e faccio partire il proiettore senza test. Funziona, ma il suono è opaco. Colpa del segmento di lettura che non è allineato né a fuoco. Empiricamente, come feci a Viterbo, cerco di tararlo con l’ausilio dell’altoparlante monitor al massimo volume.

 

Squilla il telefono. E’ Silvana che è al mare con Alessio. Rispondo incurante del sottofondo. Dall’altra parte mia moglie ascolta sospiri e gemiti di passione che precedono la mia voce.

 

Mi affretto a spiegarle che sono in un cinema a luci rosse per un intervento. Il rumore del proiettore che somiglia a quello di una mitragliatrice conferma il mio alibi.  Sbotta a ridere.

 

Guardo dalla finestra di proiezione e noto che l’immagine sullo schermo è tutt’altro che luminosa e per niente uniforme. Estraggo dalla borsa  le apposite chiavi e regolo lo specchio. Il risultato è eccellente. Almeno così credo. Dopo pochi minuti sale l’arabo che mi dice che c’è troppa luce in sala.

Non capisco, o forse sì, ma mi adeguo. 

Abbasso l’alimentazione della lampada.

Ora va bene.

 

Scendo nei pressi della cassa e scambio due parole con il direttore-cassiere- factotum.

 

Gli chiedo se ha senso tenere il cinema aperto la mattina per poche persone, lui mi dice che non sono affatto poche, e che al momento ci sono un centinaio di spettatori. Mi domando che tipo di pubblico possa essere quello che a quest’ora si reca in un posto del genere. La risposta arriva da sola osservando le persone che acquistano il biglietto: l’impiegato di mezza età in giacca e cravatta, il ragazzo straniero dall’abbigliamento sportivo, il pensionato dimesso che si guarda intorno con particolare circospezione. Tutti rigorosamente uomini.

 

Ad un certo punto un altro arabo, più giovane, passa oltre dicendo:

“ Vado in sala a prendere le ordinazioni”.

“Le ordinazioni?”

“Quello è mio fratello, qui c’è gente che è entrata un’ora fa e rimarrà fino a tardi. Dovrà pur pranzare. Lui li conosce tutti e loro conoscono lui”

 

Poco dopo esce e quindi ritorna con due buste di panini accuratamente incartati.

 

Saluto e me ne vado.

 

Metto in moto e penso.

Penso a questo mondo a parte che ho appena conosciuto, a come le cose a volte siano il contrario rispetto a come siano abituati a vederle.

 

Lì tutto è in funzione di incontri fugaci, approcci occasionali con sconosciuti in una sorta di generale complicità che non ammette elementi estranei.

Altrove, in un cinema normale, avviene l’opposto. Più di una volta mi è capitato di dover intervenire in sala cogliendo sul fatto molestatori abituali di minorenni o donne sole.

La prassi era: un invito perentorio a seguirmi, proteste, rassegnazione, corridoio verso l’uscita di sicurezza che doveva apparire all’indesiderato di turno come una sorta di via crucis.

 

Ognuno al suo posto.

 

 

Paolo DI Virgilio

 

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La quattordicesima puntata Autunno 1998, Roma, cinema Quattro Fontane. No Surrender – Nessuna resa

La quattordicesima puntata Autunno 1998, Roma, cinema Quattro Fontane. No Surrender – Nessuna resa

Autunno 1998, Roma, cinema Quattro Fontane.

No Surrender – Nessuna resa

Mattina.

Ho avuto da sempre un’attrazione innata per le due ruote. Da un po’ di tempo ho lasciato l’ennesima vespa per tornare a guidare una motocicletta vera. Cerco di convincere me stesso e i miei cari che è una necessità, lavoro in centro, ho orari strani, a volte devo spostarmi rapidamente da un cinema a un altro. In realtà uno scooter sarebbe più adeguato, ma  il senso di libertà e di equilibrio che mi trasmette questo mezzo è una necessità quasi irrinunciabile.

Percorro via Venti Settembre, giro per via delle Quattro Fontane, mi fermo, metto la stampella laterale e chiudo la Yamaha Virago. Una piccola folla mi attende. Non sono spettatori venuti qui per una matinée, sono giovani uomini e donne  tra i venti e i quaranta che si sono lasciati alle spalle una vita difficile. Qualche mese prima  Brunella mi aveva fatto un’offerta che non potevo, ma soprattutto non volevo rifiutare: collaborare con una cooperativa sociale tenendo un corso per proiezionisti..

Apro la saracinesca dell’entrata laterale e ci rechiamo insieme all’interno del cinema.

Ritengo che il metodo meno noioso possibile di tenere una lezione sia prevedere una parte teorica e una parte pratica. Non sono portato per snocciolare nozioni da mandare a memoria, credo piuttosto che sia importante capire il funzionamento delle cose per poi saperle utilizzare al meglio.

Ogni proiettore ha il suo schema di caricamento, ovvero i passaggi che deve fare la pellicola per andare dalla bobina superiore a quella inferiore sono diversi,  ma i principi da seguire per ottenere il risultato sono gli stessi. Di solito ci sono due rulli dentati, che portano la pellicola prima e dopo il punto di proiezione,  un rocchetto a scatto che da l’intermittenza, un finestrino di proiezione e una testa sonora di lettura che deve essere a una distanza precisa dal finestrino di proiezione. Non occorre capire quali sono esattamente i passaggi in ogni singolo proiettore, ma quali sono le necessità. Dopo queste spiegazioni esposte nel dettaglio, passiamo al lato pratico.

Il proiettore è a disposizione degli allievi che dovranno provare a caricarlo senza guardare lo schema di caricamento. A chi obietta che in questa maniera il compito è più difficile, rispondo che, al contrario, così è più facile. Quando sai a che cosa servono quei rocchetti e quei rullini devi semplicemente usarli per fare ciò che è necessario.

Silenzio generale. Ognuno tace in attesa del proprio turno, sperando che sia il più tardi possibile, così, nel frattempo, avrà modo di vedere il caricamento effettuato da chi lo precede.

Il primo studente sembra in difficoltà

“Non ci riesco, dammi qualche indicazione”

“Il proiettore non pensa, pensava chi lo ha progettato e così devi pensare tu: sai a cosa servono tutte le parti, cerca di ragionare come se dovessi progettarlo nuovamente”

Dopo cinque minuti il proiettore era caricato correttamente. Nel frattempo avevo invitato gli altri studenti a recarsi in sala.

“Bene, ora proietta”.

“Ma non l’ho mai fatto”

“Però sai come si fa. Quante volte sei stato al cinema?”

“Beh, abbastanza”

“E dov’eri?”

“Dall’altra parte del vetro”

“Ci tornerai dopo. Ora sei qui….”

Accensione della lampada, spegnimento della prima luce, motore, la coda scorre.

Sette, sei, cinque, quattro, tre, seconda luce spenta.

CLIC! Immagine e suono.

Nel frattempo mi ero allontanato di qualche metro.

  1. si gira verso di me, in lui non c’è più traccia dell’ansia di poco prima, vedo sul suo volto la soddisfazione di aver compiuto bene la sua opera, l’espressione è finalmente rilassata, Ora scenderà in sala da spettatore e, a turno, ognuno sarà per la prima volta il mago della proiezione.

Mezzogiorno e mezza.

La lezione è finita.

Di solito rimaniamo un po’ a parlare, oggi saluto in fretta e scappo via. I ragazzi forse ci rimangono un po’ male, ma oggi devo sbrigarmi.

Vado a piedi fino alla storica biglietteria di piazza dell’Esquilino,. Prendo il mio numero e mi preparo all’attesa. Appello ogni ora, alle diciassette esco trionfalmente con i biglietti in mano. Li guardo soddisfatto, Bruce Springsteen Reunion Tour, Bologna 17 aprile 1999.

Roma, 16 luglio, quasi vent’anni più tardi, Circo Massimo.

Sono qui con mio figlio.

Luci basse, silenzio…

“Questa è una canzone dedicata ai lavoratori delle cooperative sociali”.

Un arpeggio, poche note di armonica, inizia “Ghost of Tom Joad”. Gli operatori sociali  che Bruce aveva conosciuto quella mattina erano gli stessi che io, quasi vent’anni prima, avevo incontrato per dare vita al progetto che avrebbe portato per la prima volta in una cabina di proiezione una decina di ragazzi. Alcuni di loro ancora oggi lasciano casa dopo pranzo e tornano a tarda notte, dopo l’ultimo spettacolo.

Le note scorrono.

“….ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere
o un lavoro dignitoso, un aiuto,
ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero,
guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me…..”

Dedicato a Armando, Antonella, Corrado, Gianfranco, Marco, Pietro, Roberto e tanti altri.

E a mio figlio Alessio.

Paolo DI Virgilio

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La tredicesima puntata.23 marzo 1998, Roma, Cinema Quattro Fontane Panta Rei (notte di navi, statuette e moschettieri)

Panta Rei (notte di navi, statuette e moschettieri)

23 marzo 1998, Roma, Cinema Quattro Fontane

Panta Rei (notte di navi, statuette e moschettieri)

Cosa ci faccio qui.

Quasi due anni fa, negli ultimi tempi in cui lavoravo al Nuovo Sacher, insieme a Fabio, Fabrizio ed Ennio avevo dato vita alla Kinoroma, una società che si occupava di distribuire proiettori tedeschi nella mia regione.

La prima commessa importante fu quella che ottenemmo dal nascente Circuito Cinema srl, un gruppo composto essenzialmente da distributori e guidato da Fabio Fefè, eclettico esercente romano col quale ci conoscevamo e stimavamo da anni, da quando lui, gestore di un piccolo ma importante cineclub sulle rive del Tevere, veniva periodicamente al Capranica in visita dal signor Zignani, capo del personale e programmista, per concordare la programmazione della sua struttura

Non ci perdemmo di vista neppure ai tempi del Nuovo Sacher, in quanto Largo Ascianghi era vicinissimo a un altro pezzo di storia del cinema romano di qualità a cui Fefè aveva dato vita, la multisala Greenwich.

Fui vittima di un bonario ricatto: prendiamo i tuoi proiettori, che peraltro sono ottimi, ma tu entri a far parte della nostra squadra.  Un’altra offerta che non potevo rifiutare!

Poco dopo mi trovai nel cantiere del Quattro Fontane.

Circa cinquant’anni fa la sala era ancora un teatro, inglobato nello storico Palazzo Del Drago; successivamente divenne un cinema importante ma chiuse ben prima dalla crisi degli anni ’80.

Provai una bella sensazione nel contribuire al risveglio di questo gigante addormentato.

Non era più tempo di cinema con grandi platee e gallerie, la ristrutturazione prevedeva il frazionamento in quattro sale.

Con Fabrizio curammo attentamente la progettazione e la messa a punto dei sistemi audio per ottenere il massimo della qualità, senza badare a spese. In realtà avremmo dovuto badarci, perché le spese erano le nostre, ma noi eravamo dei tecnici e non dei direttori commerciali, quindi ci  accordammo per dare il massimo risultato al minimo prezzo.

Stasera è una serata speciale: la notte degli oscar. Telepiù, la tivù a pagamento digitale, ha voluto trasformare la sala uno in studio televisivo per seguire in collegamento da Hollywood la premiazione più attesa dell’anno.

Nelle ore che precedono la diretta notturna il pubblico verrà intrattenuto in tutte le sale con l’anteprima de “La Maschera di Ferro”.

Nell’atrio  sono previste attrazioni di vario tipo, tra le quali un’area relax dove alcuni massaggiatori orientali dimostrano la loro abilità.

E’ passata la mezzanotte, un temporale si abbatte su Roma, la pioggia è talmente violenta che rivoli  d’acqua entrano passando sotto la porta, Marco, il direttore della sala, si adopera affinché vi sia meno disagio possibile.  Passa mezz’ora e mi compare davanti visibilmente preoccupato: “devo mostrarti una cosa”.

Mi conduce vicino a uno dei bagni del piano terra, fendendo la folla più o meno vip che si trastullava nell’atrio.

La scena  era a dir poco preoccupante: le fogne non riuscivano a raccogliere quel diluvio che stava venendo giù e, di conseguenza, la marea, non potendo defluire verso il basso, cercava sbocco attraverso le aperture disponibili, ossia i sanitari dei bagni che, gorgogliando, si preparavano per poco invitanti giochi d’acqua.

In questi casi, la parola d’ordine è sempre: calma e savoir-faire. Raccolsi tale comandamento e mi recai nell’atrio a cercare di spostare l’attenzione verso le sale e, soprattutto, mi preoccupai di far spostare altrove gli ospiti dei massaggiatori, i quali giacevano comodamente a terra su morbidi cuscini.

Fu un buon lavoro di squadra, tutti per uno e uno per tutti come recitava il buon Leo Di Caprio poco fa sugli schermi,  io mi occupavo dell’elemento umano,  Marco, eroicamente, con secchi, stracci e quanto altro disponibile, arginava le acque e il disastro fu evitato.

La diretta televisiva prosegue intanto nella sala maggiore dove nessuno si è accorto di nulla, l’unica acqua con la quale hanno a che fare è quella del film vincitore: “Titanic”.

Quasi l’alba, il pubblico defluisce dall’atrio senza bisogno di scialuppe, l’acquazzone è passato oltre; la stanchezza si fa sentire e in pochi rimangono per commentare brevemente vincitori e vinti.

Della piazza colorita che aveva preso vita nell’atrio non rimane nulla, niente più cuscini variopinti né tavoli colmi di vivande invitanti.  I tecnici esterni stanno smontando gli ultimi monitor, io ho già chiuso tutte le cabine; poco dopo con Marco abbassiamo la saracinesca,  le prime luci del giorno si riflettono sui sampietrini bagnati di Via delle Quattro Fontane.

“Ciao, a più tardi”

Una persona normale andrebbe subito a casa per recuperare un po’ di sonno.

Noi no.

Roma a quest’ora è bellissima, scorgo poco distante la sagoma di Santa Maria Maggiore.

Era qui prima che esistessero gli oscar, prima che esistesse il cinema,  prima che  questo paese si chiamasse Italia,

O forse…

Forse anche noi siamo in una grossa bobina che contiene Tutto e che si sta svolgendo davanti ad un fascio di Luce.

Paolo Di Virgilio

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Puntata a rovescio. Beyond the window

Puntata a rovescio. Beyond the window

Prendiamo una pausa, per il momento lasciamo da parte le narrazioni del nostro proiezionista e passiamo dall’altra parte del vetro.

Usciamo dalla cabina, percorriamo il corridoio segreto ed entriamo in sala.

Le luci già spente, pochi posti vuoti, gli spettatori in attesa dell’inizio del film; qualcuno guarda dietro di sé e immagina….

Immagina l’uomo che è oltre la finestrella rettangolare, alle prese con un macchinario capace di inviare sullo schermo immagini e voci attraverso un fascio di luce; non è un semplice operatore, per le prossime due ore sarà il maestro delle cerimonie, colui che crea il buio, preme un bottone e che lo spettacolo abbia inizio.

Il nostro eroe sa sempre quando è il momento giusto per far partire il film, dalla sua postazione guarda in sala, si accorge che qualcuno è in ritardo e aspetta quel mezzo minuto che gli consente di prendere posto, sorride compiaciuto quando il pubblico si diverte e si commuove, pensa che è anche un po’ merito suo.

Il proiezionista ha un fascino particolare, non è come la cassiera o lo strappabiglietti, egli è invisibile eppure ognuno sa che è lì al suo posto. Un vero campione con  braccia robuste per sollevare decine di chili di “pizze”, mano ferma per impugnare la pistola ad aria compressa nel suo eterno duello con la malvagia polvere, occhi acuti per trovare il fotogramma giusto e attaccare perfettamente la fine di un rullo all’inizio del successivo.

Ce l’ha una famiglia? Riesce qualche volta a dare il bacio della buonanotte ai suoi figli? Sua moglie gli prepara qualcosa da portare con sé per mangiare tra uno spettacolo e l’altro oppure è cliente fisso di un ristorantino che rimane aperto fino a tardi?  Chissà se nel suo giorno di riposo si rilassa leggendo il libro da cui è stato tratto il film che proietterà domani…

Allo spettatore sembra quasi di scorgerlo, lì nella cabina; potrebbe giurare di averlo visto, nonostante il buio, tra complicatissimi marchingegni, bobine e chilometri di celluloide perforata. E poco importa che la tecnologia, in realtà, abbia mandato in pensione tutte queste meraviglie. Ma questa è un’altra storia.

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La dodicesima puntata. 27 luglio 1993, Roma, Arena Nuovo Sacher. Notti di stelle cadute

La dodicesima puntata. 27 luglio 1993, Roma, Arena Nuovo Sacher. Notti di stelle cadute

L’Arena Nuovo Sacher è un cinema all’aperto stabile costruito durante il fascismo come luogo di intrattenimento estivo. E’ situata nell’area esterna, alla destra della sala cinematografica; vi si accede dallo stesso atrio del cinema passando attraverso una grande vetrata. L’arena ha la forma di un anfiteatro e la cabina di proiezione è una gabbia di cemento posta al centro dell’anello più alto. Sul lato destro, poco più avanti c’è un vecchio fico che da ancora buoni frutti, talmente abbondanti da farci rischiare un meritato mal di pancia in più di un’occasione. In realtà ci sono diversi alberi da frutto tra cui un albicocco nel cortile davanti all’entrata.

Qualche settimana prima, quando la proiezione era ancora al chiuso, le albicocche erano giunte a maturazione, così in un noioso pomeriggio di inizio estate presi la lunga scala del quale ogni cinema era dotato e salii per cogliere i frutti più in alto. Stavo compiendo soddisfatto questa operazione quando Nanni parcheggiò la Vespa e notò la mia presenza tre metri sopra di lui.

Fece finta di nulla e attraversò il cortile. Giunto sulla scalinata, poco prima della porta, si girò verso di me e squadrandomi mi disse: “Paolo, ma se tu cadi da quell’albero c’è qualcuno in grado di terminare le proiezioni?”

La cosa lì per lì mi divertì, ma mi fece anche riflettere su cosa potesse sottintendere: il pubblico pagava per vedere il film, lui pagava me per proiettarlo, quindi il mio posto non era in cima a un albicocco.

Tacitai la mia coscienza dividendo il raccolto con i colleghi.

Il vantaggio per un proiezionista di lavorare in un’arena è che ci sono solo due proiezioni serali, lo svantaggio è che bisogna montare due film al giorno, operazione faticosa in un piccolo ambiente esposto al sole di luglio.

Oggi sono venuto intorno alle sei e mezza, e prima delle otto i due film erano pronti.

Mi siedo fuori dalla cabina sulla mia poltrona da regista a contemplare le sedie ancora vuote.   Sono azzurre, ma i  riflessi del sole che volge al tramonto le fanno sembrare rosse.

L’anno scorso proprio qui ci fu un fuori programma.

Nanni venne con una troupe essenziale e ripetemmo davanti alla cinepresa un dialogo che era avvenuto realmente qualche mese prima.

Era il periodo dell’uscita di “Garage Demy” di Agnès Varda, un omaggio a suo marito Jacques, delicato come la minuta signora francese, che presenziava alla prima  italiana del suo film.

“Nanni, ma quella è Agnès Varda! Ti rendi conto?”

“Lo so, è nostra ospite… “

“Ma lei non è solo una regista, è l’ultima persona rimasta che sa tutta la verità su Jim Morrison!”

“Cioè?”

“La sera prima della sua morte, Jim Morrison era a Parigi con la sua compagna Pamela, Jacques Demy e sua moglie Agnès Varda.”

“Quindi?”

“Morì durante la notte, fu sepolto alcuni giorni dopo e la notizia venne data solo successivamente. Solo tre persone erano presenti”

“E con questo?”

“L’unica rimasta in vita è lei. Non ha mai voluto parlarne con nessuno e questo probabilmente ha alimentato molte leggende. Lei è la sola su questa Terra che sa la verità sulla morte di Jim Morrison!”

Zoom su me e Nanni.

Seppi in seguito che questa fu una delle tante scene girate e non incluse nel montaggio finale del suo “Caro Diario”.

Non so perché, ma non me ne dispiacqui.

Entra il pubblico.

Scorgo Olga, che era stata la mia insegnante di lettere alle scuole superiori. Fu lei che fece nascere in me l’amore per la letteratura, compagna fedele delle giornate trascorse nella cabina del cinema Farnese.  In classe, ogni tanto, Olga ci raccontava di suo nipote, giovane cineasta.

A me capitò di proiettare il suo primo film in sedici millimetri, “Io Sono un Autarchico”. Ora ci siamo ritrovati qui.

Il ragazzo del bar con il suo vassoio gira tra il pubblico.

Due anni fa, prima dell’inaugurazione dell’arena, Nanni ci convocò per mettere a punto tutti i dettagli. Ad un certo punto fece sedere me, Fausto, Paola e Fabia in punti distanti tra loro. Ci fece portare un sacchetto di patatine ciascuno e ci chiese di mangiarle. Lo scopo era capire quanto la masticazione di cibi croccanti nonché il maneggiare il sacchetto che li conteneva potesse recare fastidio durante la proiezione. Provammo tanto in silenzio, quanto con la proiezione in corso. Fu stabilito che i pop-corn sarebbero stati meno rumorosi. L’episodio, di per sé, fu divertente, ma anche in questo caso portò a una riflessione: la libertà di mangiare un sacchetto di patatine finisce nel momento in cui inizia a disturbare il mio vicino.

Inizia la proiezione di Ombre Rosse.

Al termine del film, una parte del pubblico esce, mentre lo zoccolo duro dei cinefili più incalliti rimane. Inizia Il Mistero del Falco.

La maschera di Humphrey Bogart invade lo schermo.

Un boato risuona nell’aria, ma non fa parte del film.

Lo spettacolo va avanti, mando il secondo tempo. Esco dalla cabina dopo la sua partenza.

Un secondo boato, vedo il lampo in lontananza, oltre il Tevere.

Minuti di silenzio e poi tante sirene. Ormai è chiaro che è successo qualcosa di grave.

La proiezione prosegue, dopo i titoli di coda chiudo la cabina e vado nell’atrio.

Gli spettatori sono ancora quasi tutti lì, c’è un brusio anomalo; la notizia è circolata: due bombe, San Giovanni e San Giorgio al Velabro. La seconda la conosco bene.

Salgo sulla Vespa, percorro il Lungotevere; vicino piazza della Farnesina c’è il Cineporto, una delle arene dell’estate romana alla quale presto assistenza tecnica.

Spesso mi fermo qui. L’ultimo spettacolo inizia tardi e c’è un’area di ristoro dove si fa anche musica dal vivo.

Ho voglia di una birra fresca, ma tiro dritto, vado verso casa salendo per via del Monti della Farnesina.

Entro.

Silvana dorme. Osservo una foto del nostro matrimonio. E’ stata scattata nella chiesa di San Giorgio al Velabro.

Apro il frigo, la birra è qui. La bevo avidamente… Ripenso al manifesto del film in programma al Cineporto: Cartoline dell’Inferno.

Paolo Di Virgilio.

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L’undicesima puntata. 23 maggio 1992, Roma, Cinema Nuovo Sacher. Alta tensione

L’undicesima puntata. 23 maggio 1992, Roma, Cinema Nuovo Sacher. Alta tensione

Per alta tensione si intende una tensione “elevata”. La soglia al di sopra della quale si ha l’alta tensione è variabile e difficilmente definibile, se non in misura relativa e convenzionale.

Cosa ci faccio qui.

Ho sempre avuto la voglia di capire come funzionano le cose. Per questa ragione ho scelto di mettere a frutto nelle cabine di proiezione quello che ho imparato  dai miei studi tecnici. Sin da giovane sono stato molto apprezzato per questa mia caratteristica: negli anni della prima crisi delle sale cinematografiche ero una sorta di “prendi due al prezzo di uno”, paghi un proiezionista e hai in casa anche un tecnico. I vetusti impianti che avevo a disposizione all’inizio degli anni ’80 erano spesso l’oggetto del mio furore migliorativo.

Uno di questi raptus quasi mi costò la vita.

Avevo deciso di intervenire drasticamente per perfezionare il  suono di una sala di periferia,  montando un equalizzatore grafico. Nell’epoca in cui l’amplificatore a valvole in uso era stato progettato, però, non era prevista una simile eventualità., così fui costretto ad operare “a cuore aperto” nell’apparecchio.  Per una disattenzione andai a toccare un punto dove era presente la tensione “anodica” delle valvole, che era di circa 600 volts; ovviamente l’altra mano era poggiata sullo chassis collegato a terra, pertanto fui letteralmente attraversato da una massiccia dose di energia elettrica. Ciò mi procurò, prima ancora che uno spavento, una euforia per essere sopravvissuto, effetto, forse, della scarica stessa. Tant’è che non mi scoraggiai affatto, tutt’altro.

Al tempo del cinema Capranichetta ebbi modo di conoscere un tecnico cinematografico che esercitava davvero. Luigi era un autentico innovatore anche degli impianti audio, importò in Italia un sistema stereofonico da colonna ottica precedente al Dolby Stereo. Dopo una stretta di mano, ci accordammo sul fatto che ogni mattina, anziché dormire com’era nelle abitudini di ogni proiezionista che si rispetti, sarei andato ad aiutarlo nel suo studio.

Fu con lui che diventai un tecnico “vero”.

Un giorno andai ad assisterlo nell’installazione di un cinema particolare.

Era il progetto che diventava realtà di una sala ideale per spettatori esigenti. Esigenti come l’esercente, che in realtà entrava in questa veste per la prima volta. Fino ad allora i film li aveva diretti e spesso interpretati. Ora, splendido quarantenne, si accingeva ad intraprendere questa nuova attività.

Giovanni, detto Nanni, e il suo fido socio produttore Angelo mi proposero di rimanere lì come proiezionista.

Accettai.

Iniziò una nuova avventura.

Il Nuovo Sacher è diverso da tutti gli altri cinema in cui ho lavorato. E’ un microcosmo nel microcosmo.

Io e i miei colleghi compagni d’avventura, Fausto, Fabia e Paola siamo qui ormai da oltre un anno e ci conosciamo bene, ci ritroviamo ogni giorno nel  “nostro” cinema. E’ facile sentirsi a proprio agio nell’atrio particolarmente accogliente, con il suo bar completo di sedie stile anni ’60, la piccola libreria e la grande vetrata che affaccia sull’arena estiva.

La sala è parte di un complesso edificato durante l’era fascista come dopolavoro per i dipendenti dei Monopoli di Stato. Dietro lo schermo c’è un grande palco con relativi camerini, ormai in disuso, vestigia del Cinema Teatro Nuovo.

Da quando sono qui  il mio modo di lavorare è cambiato. Prima il mio scopo principale era soddisfare il pubblico, fosse esso colto o popolare. Ora ho imparato che il mio mestiere è il ponte tra chi i film li fa e chi li va a vedere,  Non spetta ad esercenti e tecnici interpretare l’opera, gli spettatori devono riceverla esattamente come l’ha voluta l’autore. Il suono, la luce, le dimensioni dello schermo in rapporto alla sala seguono criteri ben precisi e solo rispettandoli sarà possibile avere questo collegamento.

Se il tecnico del suono, il direttore della fotografia e il regista stesso hanno lavorato in determinate condizioni, solo riproducendole in sala si avrà lo stesso risultato. Le caratteristiche tecniche della pellicola, insomma, devono diventare norma.

Norma: dal latino norma normae, “squadra”, lo strumento per  verificare la rettitudine degli angoli. Nessun edificio starebbe in piedi a lungo se nel costruirlo non fosse stata usata la squadra.

Oggi si proietta “Il Ladro di Bambini”, la storia di un carabiniere che viaggia scortando due anime innocenti in un impegnativo viaggio che terminerà sulle strade della Sicilia.

Poco pubblico in questo sabato pomeriggio Forse chi voleva uscire ha deciso all’ultimo momento di rimanere a casa. Chi non ci è rimasto è Nanni, che entra nell’atrio quando è da poco iniziato il secondo spettacolo, L’espressione è diversa dal solito.

“Avevo bisogno di uscire, di vedere qualcuno, di parlare”.

Le parole sono difficili da trovare,  Un uomo giusto, sua moglie e tre uomini della scorta sono morti in un attentato di mafia.

Giovanni Falcone si adoperava perché l’edificio sociale di questo paese fosse retto, solido, forte.

La squadra è caduta dalle sue mani, giace sul fondo di una voragine lungo l’autostrada A29.

Cammino con Nanni tra le sedie vuote dell’arena. Un anno fa passeggiavamo qui e discutevamo della proiezione all’aperto. Ad un certo punto mi disse:  “Paolo,  tu sai parlare, ma non sai ascoltare”. Oggi invece ho voglia di ascoltare, forse lo vorremmo entrambi.

Rientro nell’atrio, mi affaccio in sala, lo spettacolo sta finendo, il carabiniere osserva i due bambini allontanarsi verso la loro meta.

La squadra sarà raccolta.

Quello che ancora nessuno sa è che cadrà di nuovo, tra cinquantasette giorni, in via D’Amelio.

Paolo Di Virgilio.

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La decima puntata. A sud di Roma, giugno 2019. Il giuoco delle perle di vetro (una storia di tele e teli, bronzo, celluloide e cavalli)

La decima puntata. A sud di Roma, giugno 2019. Il giuoco delle perle di vetro (una storia di tele e teli, bronzo, celluloide e cavalli)

Sabato primo pomeriggio, caldo.

Il proiettore a tiro ultracorto full HD, lo schermo avvolgibile con la sua “americana”, le immancabili  Bose 402, il rack audio completo di processore, tanti cavi (non sono mai troppi), il borsone degli stativi.

Il nostro cinema da viaggio viene caricato sulla vecchia Fiat aziendale.

“Le orecchie! Abbiamo preso le orecchie?” Riapro la flight case, ci sono. Andiamo.

Imbocchiamo l’Appia, direzione Castelli. Guido rilassato su questa antica strada consolare, mi vengono in mente immagini del mio passato remoto e recente, quando quasi smisi di fare il proiezionista per progettare cinema e curarne tutti gli aspetti.

Penso agli anni del Nuovo Sacher, a quelli successivi e alla società che fondai per vendere proiettori tedeschi, a come da lì non mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana, ma su quella folle nave che negli anni a venire sarebbe diventato il maggior circuito cinematografico di qualità.

Mi vengono in mente tutte le sale ristrutturate, le serate speciali, le anteprime con i registi di mezzo mondo (Martin Scorsese, Spike Lee, Sophia Coppola, Luc Besson, oltre ai “soliti”, amatissimi, italiani).

Poi, quattro anni fa: “Siamo in crisi, non possiamo più permetterci una figura professionale come la Sua, accordiamoci per una separazione”.

Presi atto e me ne andai in punta di piedi.

Mi ero occupato di cinema per quattro quinti della mia vita e avrei voluto continuare a farlo. Misi su un piccolo folle incrociatore con l’intento di traghettare l’esperienza cinematografica in ogni luogo possibile.

L’avvento del digitale e di tanta nuova tecnologia mi aveva fatto prendere coscienza da tempo che, mettendo a frutto le mie conoscenze tecniche, avrei potuto realizzare sale private di qualità enormemente superiore a quelle pubbliche.

La prima che feci fu… la mia!

Per uno strano scherzo del destino, o piuttosto per una sorte benevola, la sede che potevo permettermi era un vecchio studio di doppiaggio in disarmo da oltre un decennio. Una delle sale aveva un trattamento acustico perfetto, non la snaturai e creai lì il mio cinema personale.

Svoltiamo a destra, superiamo il regno della porchetta, prendiamo una stradina secondaria.

Ecco, siamo arrivati alle Officine Alviti, un insospettabile capannone industriale.

Ci viene aperto, rigorosamente a mano, il grande cancello di ferro.

Parcheggiamo nel cortile.

Sacchi di cemento, vecchi sgabelli arrugginiti, una carriola buttata da un lato.

Entriamo nel capannone. Vediamo scaffali altissimi, grandi sculture di bronzo, calchi, quadri, tessere di mosaico, ma, quello che c’è veramente, è invisibile agli occhi.

Serve un occhio speciale per scorgerlo.

I padroni di casa ci conducono in un’ala separata, uno spazio normalmente destinato alla pittura che oggi ospiterà la proiezione di un film entrato nella storia del cinema italiano.

Scarichiamo le attrezzature, montiamo lo schermo di tre metri davanti a una parete di mille colori sporcandoci le mani e le ginocchia di tempera rossa.

Presi dall’entusiasmo, l’allestimento e la messa a punto si concludono in meno di un’ora.

Mentre attendiamo Alessandra, Patrizio ci conduce in una sorta di visita guidata presso lo spazio grande.

Ci parla dell’anima di questa fabbrica d’arte, di come sia cresciuta grazie all’impegno suo e di suo fratello Cristiano.

Ci sono centinaia di tele e sculture di varie dimensioni, da pochi centimetri a qualche metro, le figure emergono da un apparente caos recando qualcosa che non è più materia, ma piuttosto spirito imprigionato dentro di essa.

E’ imprigionato come lo sono Mandrake e Er Pomata in un grosso file riversato in un blu ray appoggiato vicino al proiettore.

Lasciarmi andare nella ricerca dell’essenza di questo spirito mi costringerebbe ad entrare in stati d’animo profondi e non compatibili con questo pomeriggio d’estate. Mi accontento, per ora, di lampi fugaci di questa percezione.

Ritornando verso l’area dove si svolgerà la proiezione, incontriamo Cristiano.

E’ lui l’autore delle sculture.

E’ affabile ma non ama essere osservato come se stesse su un piedistallo.

Scambiamo qualche parola, mi accenna al senso del suo lavoro e mi parla di una statua particolare che avevo notato pochi minuti prima la cui essenza, ora, mi appare più nitida.

Ancora lampi.

Arrivano i primi ospiti, qualcuno porta da bere, sul tavolo allestito tra lo schermo e i divani compaiono cibi di ogni sorta. Ma Alessandra, quando arriva?

Eccola, entra portando trionfalmente due sporte ricolme di mezze maniche trafilate al bronzo e tutto l’occorrente per un’ottimo sugo Portofino. La seguiamo per la scala che porta in una inaspettata cucina, dove Cristiano è già alle prese con la zuppa di pesce.

Ho conosciuto Alessandra qualche mese fa, mi aveva commissionato un allestimento simile a quello di oggi per una proiezione privata in una importante villa sul Lungotevere.

E’ grazie a lei che sono qui ora.

Questa graziosa signora dall’aspetto delicato conserva oggi tutta l’energia e l’entusiasmo che l’hanno portata a produrre molti film che hanno accompagnato la nostra storia. In effetti la cucina mi ricorda un set cinematografico dove ognuno fa il suo lavoro in armonia e dove c’è chi coordina una squadra. In questo caso la squadra è quella che si occuperà di coadiuvare Alessandra nella realizzazione della pastasciutta. Il risultato renderà merito al suo talento nel prendersi cura di ogni particolare.

Si fa onore alle vivande, l’ambiente è suggestivo, divani, poltrone, sgabelli e tavoli sembrano messi alla rinfusa ma hanno un loro ordine che mette decisamente a proprio agio tutti gli ospiti-spettatori.

Tra un calice di buon vino, un boccone di Zizzona di Battipaglia e un sauté di molluschi passano dei piacevoli minuti e ci avviciniamo al momento della proiezione, con grande gioia delle piccole Alviti che da tempo reclamano l’inizio del film; ripenso con affetto e un po’ di nostalgia al pubblico impaziente ed entusiasta della sala parrocchiale dove, quindicenne, apprendevo il mestiere di proiezionista.

Era l’anno di produzione di “Febbre da Cavallo”.

Il pubblico, di varie età, chiede ad Alessandra di raccontare qualche aneddoto sul film. Dato il clima conviviale della serata, lei si concede volentieri, rivelandoci, tra le mille altre curiosità, come nacque il titolo. Non lo dirò per non privare chi ne avrà l’occasione, del piacere di sentirlo raccontare da lei.

Le luci si spengono, Mandrake e Er Pomata si materializzano dal file digitale allo schermo.

Da una sequenza quasi infinita di zero e di uno prendono vita le immagini, i suoni e le emozioni che, a loro volta, sprigionano gioie, speranze e dolori di quanti hanno speso parte del loro denaro e della loro vita sugli spalti di un ippodromo, o in un qualunque altrove, attendendo una vittoria che non arriverà mai.

Mezzanotte è passata, siamo di nuovo sulla via Appia, direzione Roma. Inaspettatamente data l’ora ci troviamo fermi nel traffico; molto lentamente giungiamo all’altezza dell’ippodromo e capiamo l’origine dell’ingorgo. Non si tratta di una corsa di cavalli, ma è da poco finito il concerto di un rapper che si chiama Liberato; una folla di ragazzi cammina sui lati della strada in cerca di un pullman o di un passaggio. Dal finestrino aperto guardiamo quei ventenni ancora inebriati dalla loro musica.

L’ultima perla di vetro è stata infilata.

Paolo Di Virgilio

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